venerdì, 26 Aprile 2024

Quando andai in Terra Santa ero curioso di percorrere “l’impervio sentiero del serpente”, l’unico punto di accesso per arrivare a Masada.
Masada , situata su una rocca a 400 metri di altezza rispetto al Mar Morto, a circa 100 km a sud-est di Gerusalemme, era in passato un’antica fortezza.
Aveva una quarantina di torri alte più di venti metri, lungo un perimetro di un chilometro e mezzo con mura alte cinque metri che la rendevano pressoché inespugnabile.
Nel I secolo a.C. la fortezza era il palazzo di Erode il Grande, che tra il 37 e il 31 a.C. lo fece fortificare per nascondervi i suoi tesori.
Erode il Grande la scelse perchè a rendere ancor più difficile un assedio contribuiva la particolare conformazione geomorfologica della zona; l’unico punto d’accesso infatti era ed è ancora oggi, l’impervio sentiero del serpente, così chiamato per i numerosi tornanti e per la sua strettezza, che lo rendevano un difficilissimo ostacolo da superare.
La cittadina che era arroccata su tre diversi livelli verso lo strapiombo sul lato nord della rupe, era dotata di terme, magazzini sotterranei e ampie cisterne per la raccolta dell’acqua.
Divenne nota in seguito per il lungo assedio dell’esercito romano, avvenuto durante la prima guerra giudaica nell’anno 74.
Infatti Masada era occupata nel 66 da una comunità ebraica chiamata “dei sicarii”, conosciuti anche come zeloti, cioè del partito estremista ebraico che aveva resistito al potere di Roma anche dopo la caduta di Gerusalemme.
L’assedio di Masada è stato l’episodio che concluse la prima guerra giudaica.
Per conquistare la fortezza i romani, guidati da Lucio Flavio Silva, riuscirono a costruire una imponente rampa di accesso, che colmando quasi del tutto i 133 metri di dislivello tra il campo romano e la fortezza, consentì alle torri di assedio di arrivare sotto le mura per sgretolarle per mezzo degli arieti.
Infatti dopo aver circondato la fortezza con una linea di circonvallazione, come solo i Romani erano in grado di fare, facendo in modo che nessuno potesse fuggire, il comandante romano diede inizio alle operazioni di assedio, nell’unico posto dove era possibile elevare una rampa di accesso.
Resosi conto della disfatta ormai imminente il capo zelota Eleazar Ben Yair, non avendo alcuna intenzione di fuggire, né di permettere a nessun altro di farlo, immaginò quello che i Romani avrebbero fatto a loro, ai figli e alle mogli, e considerò che l’unica opzione per loro fosse il suicidio collettivo.
Deciso a compiere un gesto simile, raccolse i più fedeli fra i suoi uomini e li spronò ad aiutarlo in questa sua impresa, cercando di convincere tutti a seguirlo e a darsi la morte.
Le sue parole non suscitarono le stesse reazioni da parte di tutti i presenti. Alcuni furono ansiosi di mettere in atto la sua esortazione, grazie alla fine gloriosa che avrebbero fatto; altri invece provarono compassione per mogli e figli, oltre che per la loro imminente fine, e con le loro lacrime dimostrarono di non essere pronti al sacrificio.
Allora Eleazar, vedendo questi ultimi tanto spaventati, temette che con i loro gemiti avrebbero scoraggiato anche quelli che invece avevano accolto questa decisione in modo favorevole. E così rivolse a loro un nuovo incitamento, ricordando loro l’immortalità dell’anima
I presenti allora, spinti dalle parole di Eleazar, in un moto d’incitamento come invasati, cercarono l’uno di precedere l’altro per dar prova di coraggio e per non essere tra gli ultimi a morire, uccidendo mogli, figli e sé stessi
Alla fine tutti uccisero l’uno sull’altro i loro cari, poi non sopportando più lo strazio per quello che avevano fatto, radunarono i loro averi e vi appiccarono il fuoco. Estratti infine a sorte dieci fra loro col compito di uccidere tutti gli altri, si sdraiarono ciascuno accanto ai corpi di moglie e figli e, abbracciandoli, si fecero tagliare la gola da chi era stato incaricato di farlo. In seguito, anche costoro, dopo aver ucciso tutti, stabilirono un nuovo sorteggio tra loro: quello designato fu costretto prima ad uccidere gli altri nove e poi se stesso. Quest’ultimo dopo aver ucciso gli altri nove, si guardò intorno, per vedere se fosse rimasto ancora qualcuno bisognoso della sua mano; poi, quando fu certo che tutti fossero morti, appiccò un incendio alla reggia, si conficcò la spada nel corpo e stramazzò a terra accanto ai suoi familiari. Si salvarono solo due donne (la prima era anziana, la seconda era parente di Eleazar) e cinque bambini nascondendosi nei cunicoli sotterranei che trasportavano l’acqua potabile. Le vittime totali furono 960, comprese donne e bambini.
Quando all’alba i Romani si gettarono all’attacco finale, gettando passerelle per avanzare dal terrapieno, rimasero stupiti della mancanza di resistenza. Una volta scavalcate le mura trovarono la fortezza desolata e gli edifici in fiamme, senza capire cosa fosse realmente accaduto. Alla fine levarono alto un grido per vedere se si faceva vivo qualcuno. Il grido venne udito dalle due donne, che uscirono dal nascondiglio e raccontarono ai Romani tutti i particolari dell’accaduto. I Romani, rimasti increduli dinanzi a tanta forza d’animo, cercarono di domare l’incendio e, una volta entrati nella reggia, quando videro quella immane distesa dei cadaveri, non provarono esultanza per aver annientato il nemico, ma ammirazione per quello che all’epoca era visto come un nobile gesto.

Nicola Incampo
Responsabile della CEB per l’IRC e per la pastorale scolastica

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