venerdì, 26 Aprile 2024

In questi giorni di limbo tra la vita e la non vita, percepite entrambe come uno spauracchio, ho avuto modo di ascoltare molto la radio, spolverando una mia grande passione e, più in generale, di ascoltare voci e racconti attraverso il web.

Si sono moltiplicate infatti le iniziative volte a tenerci compagnia in questi lunghi giorni di quarantena, giorni in cui siamo costretti forzatamente a fare i conti con noi stessi e con una tale ingombrante presenza nelle nostre vite. Sembra quasi un paradosso annoiarsi della propria invadenza, ma la sensazione è esattamente questa. Siamo troppo avvezzi a distrarci da noi stessi attraverso gli altri che quasi abbiamo perduto l’abitudine di stare da soli con noi.

Di queste iniziative moltissime puntano sull’uso prevalente dell’immagine, con trasformazioni avanguardiste di opere d’arte, meme divertenti che sdrammatizzano e fake e non fake che hanno la faccia di rendere ottimistiche o catastrofiste le previsioni di quanto stiamo vivendo.

C’è poi la strada delle visite virtuali a ogni cosa o dei flash mob di luoghi e musei e giardini e parchi che altro non fanno che coltivare l’illusione di essere fuori mentre siamo dentro, perdendo del tutto il compito imprescindibile di ogni educatore: preparare ad affrontare i momenti, consapevolmente, e non a una proiezione fittizia del momento che fu o che dopo sarà (di nuovo).

Certo sono molto, moltissimo, troppo stuzzicata alle considerazioni di archeologa sull’uso strumentale di storia e arte per diffondere messaggi culturali intesi come fatto di costume e integralmente sfuggenti all’assunto primo del Patrimonio, ovvero educare, come la scuola.

Con i modi della scuola che si sa, non è divertente, non è facile, non è solo piacere ma fatica e dovere; come la scuola che deve essere attività appassionante, ma non ludica, anche un po’ ludica per carità, ma appassionante soprattutto. Sono tentatissima, ma dato che intendo scrivere di altro oggi, non lo farò.

Nel marasma di cose dette, non dette, urlate e sottaciute di questi giorni non ho voglia di essere tacciata di pensiero antico, obsoleto ed elitario. Proprio non mi va.

Mi va invece di parlare della radio che a differenza di tutto ci sta educando all’ascolto attento, all’assenza dell’immagine, all’attenzione alle parole. Un po’ come fanno i libri che stanno riempiendo il nostro tempo vuoto allenandoci il vocabolario e la fantasia.

Qualche giorno fa (il 21 marzo esattamente) una bellissima iniziativa simil-radiofonica aveva come tema la filosofia (programma in streaming sui canali Facebook, Instagram, Youtube di Tlon e sul sito del quotidiano La Repubblica, con la Media Partnership di Radio3).

Copio quanto scrivono nella pagina dell’evento: Quarantena? Prendiamola con Filosofia. In diretta streaming filosofi e filosofe, divulgatori e divulgatrici offrono gli strumenti per affrontare questo momento. Tra pensiero e musica, un’intera giornata da passare in compagnia delle migliori menti in Italia

L’ho ascoltata con interesse perché narrava la filosofia d’intesa con la contemporaneità, un obiettivo che mi ha appassionato moltissimo gettando squarci immensi su alcune certezze e generando nuovi orizzonti di riflessioni.

Tra questi sorprendente è stata la conversazione con Stefano Mancuso, professore di neurobiologia vegetale e io nemmeno sapevo esistesse una disciplina del genere.

Il tema era L’intelligenza delle piante. Una cosa straordinariamente bella che ti apre la mente fino a mondi impossibili possibili.

La chiave di lettura essenziale si riassume nella considerazione che le piante sono una prospettiva da tenere in gran conto quando pensiamo alle nostre vite future, poiché per loro la sopravvivenza non funziona per competizione, ma per mutuo appoggio. Un principio che le ha portate ad essere vincenti finora e lungimiranti, obiettivo che, detta in tutta franchezza, a noi umani è bello che sfuggito.

Presa dall’entusiasmo ho scaricato un audiolibro del prof. Mancuso che ha per titolo L’incredibile viaggio delle piante e il suo ascolto è stato davvero intenso.

Percepire l’eco di come le piante abbiano le loro capacità cognitive, di come non si spostino ma si muovano per migliaia di chilometri rivelandosi i migratori più affermati del mondo per tempo, spazio e modo, avere contezza della loro resilienza come caratteristica assoluta che ha permesso loro di sopravvivere a Fukushima e Cernobyl, in quei luoghi contaminati e morti per decenni, è una lezione incredibile.

Mi ha colpito il rispetto sacrale che è stato raccontato nel libro per gli Hibaku jumoku, gli alberi giapponesi sopravvissuti al disastro ambientale: gli abitanti gli sono devoti come a un esempio assoluto di forza e resilienza, capacità di adattamento alla tragedia restando fermi nei luoghi e nel tempo. Mi ha anche fatto pensare agli alberi sacri dell’Andilana, in Madagascar, meta di un mio viaggio recente, che conservavano la devozione del sacrificio dello zebù, in ottemperanza al rito arcano che invoca e osanna le forze della natura.

– CI STA SEMPRE IN MEZZO L’ARCHEOLOGIA

Durante questa fase di trance nel mondo vegetale mi è anche venuto in mente quanto l’archeologia sia potente nello studio delle piante, perché non me lo dimentico mai, neppure in clausura, che sono un’archeologa nel pensiero.

La dendrocronologia, la palinologia, lo studio dei fossili vegetali sono tutte scienze applicate ai rinvenimenti archeologici e si traducono nella parola complessiva Archeobotanica. L’insieme di queste discipline scientifiche permette di ricostruire i paesaggi antichi e con questi anche lo spirito combattivo delle piante e il loro mutare. Fino a riscoprirle autentiche ora come allora in alcuni vezzi di uomini commerciali quali ad esempio il Kamut, il grano modernissimo assolutamente antico.

Molteplici sono gli esempi che si possono fare nel raccontare i semi da scavo e le loro rivelazioni, i fossili e la loro luce sulla vegetazione più remota, i reperti di legno da scavo che ci raccontano di specie di alberi plurisecolari. Non saprei da dove iniziare e come sono solita cito scavi che conosco direttamente, nel mio territorio, tra i quali c’è la rivelazione recente nella sepoltura venuta in luce a Matera, area dell’ex Seminario, sulla Civita. A seguito delle prime fasi di restauro, infatti, uno dei vasi ha restituito alcuni semi vegetali che ci parleranno di cibo rituale e coltivazioni greche, ma ancora in attesa di studio. E questo riporta al tema di una ricerca sempre in affanno che non può leggere per carenza di fondi, mentre i flash mob continui e divulgativi ci fanno credere forte nel potere (virtuale) del Patrimonio…

Posso anche ricordare i fossili intrappolati nella calcarenite materana, in ogni dove in mezzo alle case, che attendono un bell’atlante completo e ragionato, con qualche indagine paleoarcheologica in più, insieme a quelli sigillati nelle argille della diga di San Giuliano che parlano un linguaggio marino straordinario. Anche in questo caso, però, dovrei ricordarmi una ricerca abortita e mai veramente finanziata.

Va meglio poco oltre il confine della città di Matera, dove un esperimento avveniristico di paleobotanica si ricorda per Metaponto: oltre 30 anni fa un gruppo di ricercatori americani, in seno a un grande progetto archeologico, ha permesso di ricostruire le specie presenti nella porzione della piana del metapontino tra il VI e  III secolo a.C.

Si tratta del volume Vita nella Chora. Dieta e nutrizione a Metaponto, libro agile nella lettura non solo per gli archeologi, affiancato nello stesso anno, il 2007, da Antica Flora lucana. Repertorio storico-archeologico, un vero e proprio dizionario scientifico delle piante antiche, dove dalla A alla Z se ne fa la descrizione.

Naturalmente non starò qui a sciorinare bibliografie immense a tema, né a parlare strettamente di quanto può farci bene l’archeologia, ma lasciatemi sottolineare che questi studi compiuti e attenti ci hanno permesso di conoscere i tipi di coltivazione, la dieta dei nostri antenati e soprattutto di custodire il cuore antico della nostra agricoltura nella Lucania Jonica.

– IN CHIUSURA LE SOMME SOMMARIE

Mentre ascoltavo lo streaming con il professor Mancuso, quello sul sentimento degli alberi per intenderci, nella mia mente si è fermato per un attimo un concetto: «l’uomo non è il protagonista nella domesticazione delle piante, perché in questo processo si richiede prima di tutto il consenso delle specie». E a seguire ha echeggiato un’altra frase che alcune mie dilettantistiche letture antropologiche mi avevano raccontato: «Il mondo animale e il mondo vegetale non vengono utilizzati soltanto, perché ci sono, ma perché propongono all’uomo un metodo di pensiero» scrisse Levi-Strauss nel 1979 a proposito del rapporto tra uomo/natura/cultura (il concetto approfondito è spiegato benissimo nel volume già citato Flora della Lucania antica nel testo di Vincenzo Esposito, p. 293 ss., che esorto tutti a leggere).

Io credo che potrei arrivare, in questo modo, salendo gradino dopo gradino, fino alle recenti proposte di silvoterapia, curativa per lo stress e in generale le malattie mentali, o alla terapia giapponese nota come Shinrin-Yoku, ovvero arte del camminare nei boschi, con digressioni verso la talassoterapia e l’elioterapia antiche e sempre in voga.

Potrei arrivarci anche parlando dell’attuale pandemia che, giorno dopo giorno, scopriamo maggiormente gravata da polmoni stressati dallo smog (acuito dall’assenza di verde in città) o dalla carenza della vitamina D (che si sa è fissata dal sole stando all’aria aperta). Oppure potrei arrivarci, preferibilmente, parlando di legami con gli alberi in quanto esseri viventi.

E mi piacerebbe farlo moltissimo ribadendo il concetto iniziale del prof. Mancuso: le piante preesistono a uomini e animali e stiamone certi ci saranno anche dopo, perché a livello di strategie evolutive, non hanno rivali. Saremo distrutti dal nostro essere individui, poiché l’individualismo esasperato della nostra società porta a distruggere beni comuni ed è antitetico rispetto alla cooperazione e alla democrazia verde.

Così immagino a corollario del suo pensiero, ancora fortemente in discussione ma sano nel suo principio primo, il nostro pino loricato del Pollino, emblema mirabile di adattabilità e resilienza, capacità caparbia di sopravvivere, longevità, quantunque geneticamente fossile.

Mi piacerebbe moltissimo poterlo fare, solo che poi leggo sul giornale che a Montegiordano (CS), in piena epidemia, con somma urgenza vengono tagliati 115 pini allineati sul lungomare e capisco che per saper parlare al plurale a protezione della specie, essere resilienti e in mutuo soccorso spontaneo occorre un’intelligenza pronta. Quella che non è affatto scontata per gli esseri umani, come invece lo è per le piante (1)

(1) Inserisco per somma cortesia anche il link della risposta del sindaco di Montegiordano che dichiara che i 78 pini abbattuti, di appena 60 anni, “saranno sostituiti” da 140 nuovo alberi… La storia perpetua di tutto sostituibile con tutto.

P.S. In questo articolo le parole straniere, pur correntemente utilizzate nel linguaggio parlato, sono scritte volutamente in corsivo. Perché correttamente così si fa, finché da neologismi entrano, in modo ufficiale, nel vocabolario. E ciò avviene quando non sono sostituibili con le esistenti oppure dopo un lunghissimo lasso di tempo. Per quel che riguarda me, il corsivo finisce quando smetto di controllare maniacalmente come si scrivono ogni volta che pubblico uno scritto e finché si deve spiegare in calce che cosa significa il termine sia a chi non lo usa che a chi lo usa…

Flash mob: adunanza estemporanea (ormai predisposta)

Meme, che ha addirittura radice greca!: imitazione di stile, mutuata dalla genetica dove ha significato di replicabilità. Nell’intesa digitale è un contenuto virale.

Fake: molto banalmente falso da cui fake news, notizie false, oppure con uno slancio di gergo (che sarebbe lo slang ommioddio) bufale.

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