domenica, 19 Maggio 2024

Un volume dedicato alla memoria dei circa ottocentomila militari italiani che dopo l’armistizio con gli alleati, sottoscritto l’8 settembre 1943, furono fatti prigionieri dai tedeschi e inviati in Germania nei lager. Tantissimi di loro chiamati a combattere per la Repubblica sociale italiana si rifiutarono rimanendo nei campi di lavoro utilizzati come manodopera, molti morirono di fame e di stenti. E’ a grandi linee il tema della storia raccontata nell’ultimo libro scritto da Antonio Petrocelli dal titolo “La patria guarda altrove – Frustrazione e passione sulle tracce del sottotenente Armando Miele” (Treditre Editori). Petrocelli originario di Montalbano Jonico, oltre a essere un noto attore (chi non lo ricorda nei film di Francesco Nuti, Nanni Moretti o di Daniele Luchetti) è anche un abile romanziere, raffinato poeta ed eccellente saggista. Il libro sui militari italiani è stato presentato dallo stesso autore nei giorni scorsi a Matera in un incontro organizzato dall’Anpi/Associazione nazionale partigiani d’Italia. La serata culturale è stata introdotta da Carmela La Padula, presidente del comitato provinciale Anpi, mentre il saggista Giuseppe Melillo ha illustrato e commentato i contenuti del testo. A margine della presentazione abbiamo posto alcune domande all’autore lucano.

“E’ un libro – ci ha riferito Petrocelli-  contro l’erosione della memoria e anche contro la sua revisione che è pericolosa perché indebolisce la democrazia. Si tratta di una storia sottaciuta. Sono stati ottocentomila i soldati italiani che vennero fatti prigionieri e spediti in Germania. Ad essi fu chiesto di continuare la guerra seguendo la Repubblica di Salò, ma volontariamente non scelsero di aderirvi”.

Rimasero fedeli alla patria, ma non al fascismo.

“Sì avevano compreso l’inganno della guerra fascista e soprattutto furono leali verso la patria rimanendo fedeli al giuramento che avevano fatto al re e all’Italia. Scelsero di restare prigionieri in Germania pur sapendo che rischiavano di morire perché nei lager erano costretti a lavorare nella fame e nel freddo. Cinquantamila morirono di stenti e altri cinquantamila morirono poco dopo essere rientrati in Italia”.

Nel libro racconta in particolare la storia di uno di loro?

“Sì, parlo di un sottotenente del mio paese Armando Miele. Raccontando la sua piccola storia individuale però racconto l’odissea di tutti”.

Ha svolto ricerche attraverso documenti storici?

“E’ un libro soprattutto storico. Ho letto i diari degli ufficiali e dei soldati scritti durante e dopo la prigionia e anche in base a questo ho potuto ricostruire la vicenda del mio soldato. Ho ricostruito una sofferenza che è nazionale perché dentro questa sofferenza nasceva l’esigenza unitaria repubblicana nuova, l’esigenza di libertà. In quella prigionia i militari fecero ciò che non avevano mai fatto durante il regime, discutere e scambiarsi opinioni. Crebbe così in loro la voglia di confronto culturale e sociale e quindi di democrazia”.

Filippo Radogna

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