venerdì, 26 Aprile 2024

Ricordo che da piccolo il mio paese non era ancora elettricamente illuminato. C’era solo “Il lume” che appunto doveva illuminare tutto il paese.

Il nostro gioco allora preferito era “chiubbachiubba”, cioè nascondino: noi dovevamo nasconderci e un nostro compagno, estratto a sorte, dopo aver contato da uno a quindici, doveva scoprire dove noi ci eravamo nascosti.

E noi ci nascondevamo nelle zone dove la luce del lume non giungeva per non farci vedere dal compagno che “acchiappava” né dai compagni di gioco.

Il mio nascondiglio preferito era nella bottega di un falegname: mi mimetizzavo tra i vecchietti che seduti su una panca raccontavano le loro storie.

Le raccontavano con tono da “narratori” esperti e tutti gli altri ascoltavano con molto interesse e tanta attenzione.

Quando il narratore era in azione non si sentiva volare neanche una mosca; nessuno, soprattutto dall’esterno, doveva permettersi di disturbare lui e i suoi ascoltatori.

Un pomeriggio di primavera riuscii a mimetizzarmi tra due vecchietti: uno dei quali era il narratore.

Mi meravigliò il suo racconto, ma mi incuriosì di più il fatto che a racconto concluso tutti piansero.

La storia era questa.

Nel nostro paese vi era un albero, che chiamavano “l’albero del papà”.

Un albero che si trovava dopo una salita ripidissima ed era un punto di passaggio obbligato per arrivare al “fosso dei vecchi”, cioè un fosso nel quale si buttavano le persone vecchie, ormai inutili.

Una volta, un figlio prese il papà ormai vecchio e malato e se lo caricò sulle spalle.

Arrivato all’albero del papà, dopo aver percorso tanta strada in salita, si fermò, perché stanco, ma soprattutto perché c’era l’ombra dell’albero.

Il papà, che fino ad allora era stato sempre in silenzio seguendo tutto il lavoro del figlio disse con un filo di voce: “Pur ij m frmabba qua quannscibb a scittà a tatt” (Pure io mi fermai in questo punto quando andai a buttare mio padre).

Il figlio dopo aver ascoltato quelle parole del sentì un nodo alla gola e il desiderio di abbracciarlo e di riportarlo a casa.”

Tutti si misero a piangere.

Qualcuno aggiunge piangendo: “A viti j narotcud cha all’att, l’att a na fa a te” (La vita è una ruota, quello che fai agli altri, gli altri faranno a te).

Ora capisco perché quei vecchietti piangevano!

Ecco: nel ricordare questo racconto mi viene in mente quello che diceva sempre santa Teresa di Calcutta “Se vuoi cambiare il mondo, vai a casa e ama la tua famiglia”.
Nella mia esperienza di insegnante posso dire con forza che per i bambini la famiglia è veramente un valore.

Ho visto adulti che hanno abbandonato i figli per rincorrere cose effimere, soddisfazione strane e poi perdersi e perdere la famiglia, cioè perdere tutto.

Nicola Incampo

Responsabile della CEB per l’IRC e per la pastorale scolastica

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