domenica, 5 Maggio 2024

“La Nuova resta con gli occhi sbarrati, si tasta con le mani quel poco di carne che ha. Dev’essere bella anche lei senza la camicia grigia, bella come un coccodrillo rugoso, bella come un ramo stecchito in autunno, bella come un fiume svuotato dalla siccità. Noi matte siamo piante con le radici in vista, le dico, tutto quello che è sotto si vede da fuori: se abbiamo fame ne abbiamo troppa, se non ne abbiamo non mangiamo più, se siamo contente cantiamo e balliamo, se siamo tristi è come se fossimo morte da un pezzo. Se abbiamo un sospetto è già diventato realtà, se abbiamo paura, la paura è una porta spalancata sul vuoto. Se abbiamo voglia di parlare, le parole diventano un fiume, come me in questo momento. E se non ne abbiamo più voglia, allora punto e basta.”

La voce di Elba è profonda, carica di significati. Lei osserva e con il suo sguardo va oltre, con la sua sensibilità ormai è più esperta di medici e infermieri. Elba vive in una stanza del “mezzomondo”, il manicomio nel quale era rinchiusa anche la madre e dove ha voluto restare nonostante la sua Mutti sia scomparsa: per la bambina è viva, probabilmente è nella torre, e lei aspetta soltanto il suo ritorno. Intanto, con i suoi occhi attenti e disincantati scruta e compila il Diario dei malanni di mente etichettando le altre pazienti e mettendole in guardia dal personale. Colavolpe, il terribile primario, Lampadina, che ha il compito dell’elettroshock, l’infermiera Gillette, una signora che ha il viso coperto da peluria e Nana la cana, una cagnolina alla quale hanno portato via i cuccioli.

La Nuova, Nonna Sposina, Mappina, Aldina, Mastro Lindo, Sandraccio… In manicomio i nomi propri sono sostituiti da appellativi che identificano un disturbo, un tic, una mania. Ma siamo proprio sicuri che siano tutti malati psichiatrici? Le donne, in particolare, stordite a forza di trattamenti disumani e Caramelle-rosse o Caramelle-blu, non è che forse sono state confinate in manicomio perché in qualche modo irregolari e in controtendenza rispetto alla morale, al conformismo dell’epoca?

Grande Meraviglia (Einaudi), il nuovo romanzo di Viola Ardone, è delicato ma graffiante, un significativo affresco sociale – proprio come è accaduto con Il treno dei bambini e Oliva Denaro, concludendo un’ideale trilogia del Novecento. Questa volta siamo negli anni Ottanta, poco dopo l’approvazione della Legge Basaglia che aveva sancito la chiusura dei manicomi. A questa decisione resiste la vecchia guardia di psichiatri che la reputa inopportuna e preferisce sedare – con ogni metodo – i malati di mente, o presunti tali. Il dott. Meraviglia, invece, nella sua simpatica stravaganza, è capace di guardare lontano e, soprattutto, ha quell’umanità che alla maggior parte dei suoi colleghi manca. Meraviglia crede nel potere della parola, la parola è terapeutica; crede che aprire le porte del manicomio, anche solo per una partita a pallone o per guardare e toccare la neve sia più utile del rimanere chiusi in una stanza, magari vittime di stereotipie. Proprio per questo approccio che stride con tutti gli schemi precostituiti di medici e infermieri, Meraviglia sulle prime viene isolato, criticato, boicottato: puntualmente ogni conquista dei pazienti viene azzerata il giorno dopo dai metodi drastici di Colavolpe. Il fuoco che muove Meraviglia è però forte, sacro. Vuole portar via Elba dal manicomio – lui anzi li vuole eliminare proprio, in linea con la legge Basaglia – e la porta ad abitare in casa sua, come una figlia: l’unica che ha scelto, e grazie alla quale lui, che mai è stato un buon padre, impara il peso e la forza della paternità.

La realtà dura e sgradevole dei manicomi è narrata in prima persona da Elba con poesia. Rime e filastrocche stemperano il degrado e il disagio. L’ambientazione è ricostruita minuziosamente, e l’intercalare di Elba, a volte infantile ma sempre pungente, è di una musicalità assoluta. Poi sopraggiunge la voce di Meraviglia, e si intuisce quanto sia bravo ad affabulare, a cambiare la realtà dei fatti soltanto con le parole – quelle che per lui sono terapeutiche – e quanto la sua, di famiglia, sia sfilacciata.

 Con la sua scrittura intensa, originale, Viola Ardone racconta che l’amore degli altri non dipende mai solo da noi. È questo il suo mistero, ma anche il suo prodigio.

«L’amore è incomprensibile, una forma di pazzia».

L’autrice, nata a Napoli nel1974, insegna latino e italiano al liceo. Per Einaudi Stile Libero ha pubblicato i due best seller Il treno dei bambini (2019) e Oliva Denaro (2021), tradotti in tutto il mondo.

Rossella Montemurro

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