mercoledì, 8 Maggio 2024

Giovedì 4 aprile 2019
alle ore 19 nello spazio espositivo Le Tartarughe Eat & Drink in piazza
Mattei 7/8 a Roma è in programma la mostra “Uno si distrae al bivio – Matera
Maletik Pictures” dell’artista Aurora Maletik. Di seguito la recensione a cura
di Massimo Bignardi.

Lo specchio del sé

Una ricerca fotografica
orientata a favorire “l’idea del vedere fine a se stesso”, persiste nelle
esperienza in corso o, almeno, si dà come linea preminente. È quanto segnalava,
già dagli anni settanta, Susan Sontang riflettendo sulla fotografia, estendendo
l’analisi al rapporto tra realtà e immagine nella società contemporanea, come
chiarisce il sottotitolo, del suo ben noto saggioSulla fotografia. Tale rilievo
investe un concetto più ampio, toccando aspetti che chiamano in causa
l’esercizio del vedere, alla luce oggi del ruolo che le immagini hanno nei
sistemi della comunicazione, alla capacità che esse mostrano nel rapido e
perentorio rinnovarsi delle tecnologie digitali. Eppure quella che
genericamente è indicata come fotografia ‘artistica’ ha fatto maggiore presa da
quando si è passati dall’analogico al digitale, aprendo lo sguardo ad un
ventaglio di esperienze che hanno risposto a quanto affermava Alfred Stieglitz:
“La fotografia è la mia passione, la ricerca della verità la mia ossessione”.
Tale esercizio della fotografia connota il registro che tiene insieme i diversi
momenti, dettati dalle esperienze condotte in questi anni da Aurora Maletik.
Esse seguono un fil rouge narrativo, teso tra il paesaggio, dalla Maletik non
riconosciuto come scena, bensì luogo di un dialogo corale con la natura che
incornicia Matera con le sue tufacee architetture, fatte affiorate dalla
Gravina e la costruzione di un’immagine che si presta a varcare la soglia della
visione percettiva del reale e spingersi oltre, in un reale che non può essere
condiviso. Uno specchio messo su da Aurora Maletik con cura, disposto, come lei
stessa fa intendere dal titolo dato a questa mostra, ove le strade si separano,
ossia al bivio. La fotografia si fa specchio e le sovrapposizioni, i costruiti
giochi di riflessi intrecciati tra loro, gli sguardi che si allungano sul
paesaggio, dichiarano la necessità di Aurora di riconoscere una dimensione
interiore, obbligando, avrebbe detto Barthes, lo spettatore a domandarsi chi è
effettivamente la figura messa lì in posa, se non è essa il riflesso (direi
metafora?) dell’identità dell’artista.
È questo, infatti, un dato evidente che balza all’occhio, seguendo il percorso
di immagini qui proposto, dal quale appare chiaro il desiderio dell’artista di
tenere insieme la duplicità di uno sguardo che spazia tra interni ed esterni.
Il mirino della macchina si muove, cioè, tra una dimensione intimista, ove
mette a fuoco una sorta di narrazione che coglie, senza nascondere un certo voyeurismo,
figure femminili in interni sfumati, celati da effetti tecnici, da vere e
proprie messe in posa e inquadrature che spaziano sul paesaggio. Più che la
visione dello skyline della Matera dei nostri giorni, l’attenzione è rivolta ad
un luogo direi metafisico, ove i gesti, le figure spostano la loro presenza
dalla realtà dello spazio a quella di un luogo mentale, appunto metafisico.
Le sue ‘donne’ conservano, appena accennati, sia i tratti delle menadi, le
baccanti dei riti dionisiaci, sia, paradossalmente, quelli delle donne che
accompagnano il lamento funebre. Un fotogramma segna il bivio effettivo: ritrae
una giovane donna vestita di nero, con gli occhiali scuri e il velo anch’esso
nero che sale le scale; in secondo piano la Matera che ascende dai Sassi.
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