venerdì, 19 Aprile 2024

Presentato nella sala riunioni del Palazzo del Governo di Barletta il libro “L’infame legge, le origini della Camorra in Puglia” di Stefano De Carolis, edito da Giazira scritture, un volume frutto dello studio certosino di quasi 8mila documenti, condotto dal 2013 al 2021 presso l’Archivio di Stato di Bari e Trani.

            La presentazione è stata introdotta dai saluti istituzionali del Prefetto di Barletta Andria Trani, Rossana Riflesso, e del Vicario del Questore della Bat, Diego Trotta.

       Sono intervenuti con l’autore Giuseppe Volpe, già Procuratore Distrettuale Antimafia di Bari – BAT e Foggia, il Procuratore Capo del Tribunale di Trani Renato Nitti, lo scrittore e marionettista Paolo Comentale, con voce recitante di Maria Giuseppina Pagnotta. L’evento è stato moderato dal direttore di TgNorba24 Vincenzo Magistà.

Il dottor Volpe ha ricordato come i mafiosi pugliesi siano nati nelle carceri dell’Ottocento dove i malavitosi incontravano i camorristi che li affiliavano, mentre in epoca più recente c’è stata l’esperienza tentata da Raffaele Cutolo.

“Negli ultimi anni – ha evidenziato il procuratore Nitti – abbiamo assistito a tre omicidi che si sono consumati nel territorio di Barletta, una spia particolarmente allarmante di un fenomeno che la città sente molto Ancora oggi è un territorio di mafia, c’è una mafiosità strisciante di cui i cittadini avvertono tutta la pericolosità”.

            L’opera, che gode della prefazione del dott. Giuseppe Volpe, già Procuratore Distrettuale Antimafia di Bari, Bat e Foggia, si qualifica come grimaldello indispensabile per interpretare la nascita e l’evoluzione della malavita organizzata nel territorio pugliese.

           Stefano De Carolis è un sottufficiale nell’Arma dei Carabinieri, ricercatore storico, cultore di storia patria e giornalista, specializzato nella tutela e salvaguardia del patrimonio culturale nazionale presso il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo del MiBACT di Roma, già in servizio presso il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale.

“L’Infame legge” si qualifica come grimaldello indispensabile per interpretare la nascita e l’evoluzione della malavita organizzata nella nostra regione. Il volume si rivela dirimente anche nel percorso di formulazione del lessico del fenomeno mafioso: è proprio in questa fase storica che si inizierà a parlare di “infesta piovra”, introducendo la fortunata metafora con cui ancora oggi sono indicate le mafie, e di “commissione”, intesa come struttura apicale che deliberava le affiliazioni e le punizioni per chi tradiva “gli obblighi e i diritti che governavano l’associazione”. Il percorso investigativo intrapreso dall’autore incomincia all’interno delle numerose e fumose cantine baresi, dove malavitosi, picciotti e camorristi, in compagnia di prostitute, trascorrevano le intere giornate per diletto e, soprattutto, per “lavoro”, estorcendo la “tregenta” (tangente) ai cantinieri e bettolieri, nonché tiranneggiando i malcapitati avventori-giocatori, dai quali pretendevano la quinta parte della loro vincita, la cosiddetta “camorra sul gioco”. Non era raro, inoltre, che, questi luoghi fossero teatro di risse furibonde, pronte a sfociare in episodi delittuosi, mossi dalla volontà dell’affiliato di affermare il potere del rispettivo gruppo criminale. Anche il gioco, nel mondo della malavita, rappresentava una feroce competizione in cui il premio in palio era l’onore. Ne sono esempi i giochi della “passatella” (“ù zumbariedde”) e della “morra”, che spesso diventavano occasione premeditata per sfidarsi a duello con il coltello o mettere in atto spietate vendette di morte, lavando col sangue recriminazioni e vecchi rancori. Passando attraverso la ricostruzione di alcuni sanguinosi ed efferati omicidi, emblema della brutalità che animava picciotti e camorristi, il racconto si sofferma sul primo processo a carico della “società dei picciotti di Barletta”, denominatasi “Infame legge”: una “societas scelerum” di puro stampo camorristico, come venne definita nella sentenza emessa dai giudici tranesi e confermata in Cassazione, che, con l’uso della forza intimidatrice e della violenza, assoggettò sin dagli inizi del 1880 un intero territorio, quello della attuale provincia di Barletta-Andria-Trani.

Nel volume si ripercorre anche il processo celebrato nel 1890 davanti la Corte d’Assise di Trani che richiamò l’attenzione della stampa nazionale ed estera per almeno due ordini di ragioni. In primis, era uno dei primi processi che si avvaleva del codice Zanardelli, il nuovo codice penale che introduceva il reato di associazione per delinquere, evolvendo dal concetto di banditismo al fine di contrastare le forme organizzate della criminalità. In secondo luogo, gli inquirenti riuscirono a sequestrare armi, spilloni, fasce e, soprattutto, un foglio di carta contenente i nomi degli accoliti e lo statuto della consorteria criminale: per la prima volta, gli inquirenti, i Carabinieri Reali, erano riusciti a mettere le mani sullo statuto dei picciotti di Barletta, squarciando il velo dell’omertà sul canovaccio di “leggi non scritte”, cucito per preservare gli stessi equilibri interni all’organizzazione, e penetrando nel cuore dei riti alla base delle affiliazioni, scandite da un giuramento. In merito, il saggio avanza una convincente ipotesi sulla formula recitata: la parola “fossa” recitata durante il rituale, oltre a indicare la morte, potrebbe far riferimento all’antico sistema di carcerazione utilizzato dai tempi dell’antica Roma (il cosiddetto tullianum), che si protrasse per tutto il ’700 in Sicilia, dove la fossa di San Giacomo e quella di Santa Caterina nell’isola di Favignana erano adoperate come “carcere duro”. Le dichiarazioni dei 116 imputati e degli oltre 200 testimoni, che sfilarono davanti la Corte d’Assise di Trani, mettono a fuoco gli aspetti topici dello status di affiliato, ad iniziare dall’abbigliamento, rigorosamente codificato: sempre armati di coltello a serramanico, spilloni e revolver, gli accoliti indossavano pantaloni bianchi e stretti al ginocchio (a campana), una fascia di colore rosso alla cintura, il cappello alla “sgherra” e il “camuffo”, un elegante fazzoletto colorato “portato al collo, a mo’ di cravatta”. Ogni dettaglio nella “divisa del picciotto e camorrista” assumeva un valore di riconoscimento sociale; una sorta koinè condivisa che serviva a chiarire l’appartenenza al mondo malavitoso. Lasciata la Corte d’Assise di Trani, il lettore è invitato a sedere tra i banchi del Tribunale di Bari, dove, nel 1891, prende vita un altro famigerato e importantissimo maxiprocesso, che portò alla sbarra ben 179 imputati, ritenuti affiliati alla malavita barese. [L’analisi storico-giudiziaria del processo barese è stata ampiamente affrontata nella pubblicazione “Con un piede nella fossa”, LB edizioni, 2018].

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