venerdì, 26 Aprile 2024

 
Il cibo è vita, amore, calore. Basta poco e può trasformarsi in morte, odio, freddo.

Siamo in Germania nell’autunno del ’43 e, ogni giorno, dieci donne di Gross-Partsch, un villaggio vicino alla Tana del Lupo, il quartier generale del Führer nascosto nella foresta “banchettano” con la morte: sono le assaggiatrici, cavie che dovranno testare la genuinità degli alimenti assaggiando il cibo prima che giunga sulla tavola di Hitler.

Le assaggiatrici (Feltrinelli) di Rosella Postorino (in basso, nella foto di Pasquale Di Blasio) è diventato presto un caso editoriale internazionale con la sua trama inquietante e la voce profonda di Rosa Sauer, giovane sposa con il marito in guerra. Rimasta sola dopo aver perso la madre a Berlino nel corso dei bombardamenti, Rosa aspetta il ritorno del suo Gregor nella casa dei suoceri quando viene “reclutata” dalle SS: “Lavorare per Hitler, sacrificare la vita per lui: non era quello che facevano tutti i tedeschi? (…)”.

 Il rischio è quello di ingerire cibo avvelenato e morire così, “senza nemmeno uno sparo di fucile, senza un’esplosione”: “(…) Una morte in sordina, fuori scena. Una morte da topi, non da eroi.

Le donne non muoiono da eroi”.

È un’imposizione, non può rinunciare. Così, si ritrova in una mensa accanto a donne sconosciute, guardate a vista dalle SS. Ci sono madri di famiglia, figlie, fanatiche di Hitler e ragazze che si portano dietro ombre. Una tavolata eterogenea unita solo dall’incognita del prossimo morso, dal dubbio che quel cibo squisito che si sta portando alle labbra potrebbe rivelarsi l’ultimo assaggio.

La sensazione di pericolo, l’ansia del dramma incombente sfumano, man mano che il gruppo si amalgama i problemi diventano altri – le antipatie personali, il latte da rubare nella cucina della mensa per sfamare i figli piccoli, gli interrogativi sui segreti che le altre si portano dietro. Rosa, però, continua ad essere “la straniera”, lei che viene da Berlino e aveva una vita più o meno agiata.

Quando Rosa viene a sapere che il marito è disperso in guerra, alla disperazione iniziale si fa strada un’insopprimibile voglia di vivere, di rischiare, di sfidare il destino. Proprio in contemporanea con l’arrivo, nella primavera del ’44, del tenente Ziegler – prepotente, arrogante, cattivo.

Tra Rosa e Ziegler inizia un gioco sottile e perverso: lei ha intuito il lato “bambino” del tenente – non c’è però la dolcezza dell’infanzia, piuttosto egoismo e incertezza – e a poco a poco si lascia andare in una relazione ambigua, clandestina, pericolosa dove l’amore è mascherato da un bisogno reciproco di conferme. Proprio quando attorno c’è uno scenario di morte, Rosa e Ziegler, a modo loro, rincorrono la vita.

Le assaggiatrici è un romanzo bello e sconvolgente, la conferma di una delle voci più profonde e sensibili della narrativa contemporanea.

Rosella Postorino (Reggio Calabria, 1978) è cresciuta in provincia di Imperia, vive e lavora a Roma. Ha esordito con il racconto In una capsula, incluso nell’antologia Ragazze che dovresti conoscere (Einaudi Stile Libero, 2004). Ha pubblicato i romanzi La stanza di sopra (Neri Pozza, 2007; Premio Rapallo Carige Opera Prima), L’estate che perdemmo Dio (Einaudi Stile Libero, 2009; Premio Benedetto Croce e Premio speciale della giuria Cesare De Lollis) e Il corpo docile (Einaudi Stile Libero, 2013; Premio Penne), la pièce teatrale Tu (non) sei il tuo lavoro (in Working for Paradise, Bompiani, 2009), Il mare in salita (Laterza, 2011) e Le assaggiatrici (Feltrinelli, 2018). È fra gli autori di Undici per la Liguria (Einaudi, 2015).
 

L’INTERVISTA

Lei ha affermato di aver scritto Le assaggiatrici perché è rimasta colpita dalla storia di Margot Wölk, l’ultima assaggiatrice di Hitler, ancora in vita qualche anno fa. Cosa le è rimasto di questa vicenda?

“A colpirmi fu l’ambivalenza di Margot Wölk, che si era trovata a fare l’assaggiatrice di Hitler per caso, semplicemente perché, scappando da Berlino, città natale dove non aveva più niente e nessuno (la sua casa era stata bombardata e il marito era al fronte), si era rifugiata dai suoceri in un villaggio della Prussia orientale, sfortunatamente troppo vicino alla Wolfsschanze, quartier generale di Hitler. La sua colpa – perché una che ha lavorato per il Führer non può, finita la guerra, non ritenersi colpevole – era accaduta per prossimità geografica, e per una forma di resa, di assenza di ribellione, di ignavia: ma non per scelta. D’altra parte Margot era anche una vittima, perché l’unico modo che aveva di sopravvivere era rischiare la morte ogni giorno. Tutti i personaggi dei miei libri ereditano o incappano in una colpa di cui portano per sempre le tracce, oppure nascondono un segreto, anzi una vergogna. Margot Wölk sembrava il personaggio di un mio libro. La sua colpa le attraversava il corpo, come il cibo che entrava in lei, che i suoi organi metabolizzavano, che le finiva nel sangue, contaminandola. Ecco, in questa dialettica del cibo come vita e morte insieme, e della vittima che proprio nella vittimizzazione diventa colpevole, c’erano tutti i miei temi”. 

Come è riuscita a dare una voce così autentica e profonda alla protagonista, Rosa Sauer?

“Da un lato, tentando di immedesimarmi in lei con la massima onestà possibile, senza preclusioni o riserve. Dall’altro lato, leggendo diversi testi su quell’epoca. Alcuni si stupiscono che Rosa faccia di tutto per sopravvivere, la considerano per questo un personaggio “forte”; ma molte storie vere testimoniano di come la maggioranza delle persone scendesse a compromessi per tentare di scampare alla morte. Le donne, che si erano trovate a casa da sole, sotto le bombe, senza cibo e acqua, dovettero trovare il modo di difendersi. C’era in loro anche un certo pragmatismo quasi ironico: per esempio, quando si paventava l’arrivo dei russi e delle violenze che avrebbero inflitto, si usava dire che sarebbe stato meglio “un soldato Ivan sulla pancia, piuttosto che un americano sulla testa”. E poi i russi sono arrivati e hanno stuprato migliaia di tedesche, dagli otto agli ottanta anni, e alcune, a seguito di quell’esperienza traumatica, o per non subirla, si sono suicidate, altre si sono fatte deflorare dai tedeschi nei rifugi antiaerei, affinché la loro prima esperienza non fosse lo stupro, altre ancora hanno deciso di diventare l’amante fissa di un ufficiale sovietico per tenere in questo modo lontani gli altri soldati, perdendo quindi un pezzo della propria dignità pur di salvarsi, almeno dal male maggiore. 

Quando il marito di una di loro è tornato dal fronte lei, per raccontargli l’orrore che aveva vissuto, gli ha dato da leggere il suo diario (che è stato pubblicato e che io ho letto con il titolo A Woman in Berlin, autrice anonima). Lui non l’ha perdonata di essere stata la donna di un altro uomo e l’ha lasciata.

Ecco, storie come questa e tante altre mi hanno raccontato la condizione delle donne in quel periodo e sono state indispensabili per immaginare il carattere, le paure, la determinazione di Rosa, e di conseguenza la sua voce, che è anche la mia: la voce di una persona come tante, che avrebbe potuto trovarsi a fare quello che fa Rosa, se fosse nata nel 1917 e non nel 1978”.

 A parte Rosa Sauer, c’è un’altra donna che ha amato descrivere?

“Di sicuro Elfriede, una delle prime assaggiatrici con cui Rosa stabilisce un contatto, tra l’altro in modo brusco. Rosa prova per lei una sorta di fascinazione, ma anche di soggezione. Elfriede si preoccupa per lei, ma non ha affatto un modo protettivo di dimostrarlo. Rosa ed Elfriede sono amiche, ma non potrebbero mai dichiararlo apertamente, un certo pudore glielo impedisce. Ha quasi i tratti di un’amicizia maschile, il loro rapporto, tanto che Rosa lo paragona a quello di due ragazzini che “solo dopo una scazzottata riescono a capire di chi fidarsi”. Elfriede intimidisce anche le altre donne, è carismatica e misteriosa, forse è il mio personaggio preferito”.

 Ad assaggiare i cibi di Hitler c’erano solo donne, a conferma del loro ruolo di inferiorità. Lei ha conferito a queste donne una forza incredibile, soprattutto riguardo al loro rapporto con la maternità – sognata, rifiutata o negata. Dobbiamo considerarlo, per loro, una sorta di riscatto?

“No, non direi. Intanto, ad assaggiare il cibo di Hitler c’erano donne perché gli uomini erano al fronte. Non saprei dire se le SS avrebbero reclutato degli uomini, in caso contrario. Può darsi di no, nel senso che nella visione nazista il posto delle donne era domestico, era in cucina (e in chiesa e con i figli: “Kinder Küche Kirche” era lo slogan; come tutti i regimi totalitari, anche il nazismo era misogino). Ma se le assaggiatrici erano cavie, gli uomini erano “carne da cannone” mandata a uccidere e farsi uccidere: la loro singola vita non valeva di più, era comunque sacrificata alla vita del Terzo Reich e del Führer. Semplicemente, come dice Rosa, lei e le assaggiatrici formavano un piccolo esercito senza armi, invisibile, misconosciuto, ridicolo. La loro eventuale morte sarebbe stata una morte in sordina: “le donne non muoiono da eroi”. 

Nel romanzo, la procreazione è un tema che riguarda sia gli uomini sia le donne. Opposto al desiderio che ha Rosa di un figlio, c’è il rifiuto di suo marito Gregor. Lui dice che mettere al mondo un essere umano significa condannarlo alla morte. Non ha fiducia nella vita in sé, non crede in nessun futuro. Anche se non lo fa mai in modo esplicito, io credo che Gregor si domandi, come il protagonista di Kaddish per il bambino non nato di Imre Kertész, che generazione sia quella che nasce dai nazisti, e se non sia ingiusto far nascere qualcuno con questo stigma.

Infine, non credo che nella maternità ci sia un riscatto, anzi l’esaltazione della donna in quanto madre (e quindi terra e natura e concetti affini), la trovo pericolosa, molto poco progressista”. 

 La storia tra Rosa e Albert è squallida e bellissima al tempo stesso. E’ una storia impossibile ma piena di fascino. Perché è stata, a tratti, così spietata con questa coppia?

 “Non sento di essere stata spietata. Io volevo da un lato raccontare il desiderio come irruzione, rottura dell’equilibrio, pulsione di vita che continua a perdurare nonostante tutto. Il desiderio di Rosa per Ziegler e quello di lui per lei rappresentano una specie di silente rivolta, comunque una forma di antieroica, egoistica, resistenza. La vita di Rosa, intrappolata nel presente della mera sopravvivenza, è come interrotta, sospesa, asfittica. Il suo corpo senza contatto con un corpo altrui sembra perdere significato, ridotto com’è alla sola funzione digestiva. Il contatto con Ziegler, nonostante Rosa lo giudichi colpevole, perché è un tradimento non soltanto verso Gregor, ma anche verso le compagne, e verso i suoceri, e verso il padre antinazista, fa ricominciare a vivere il suo corpo. Rosa ha bisogno di intimità fisica e Ziegler la vede, la guarda, la desidera. Questo è sufficiente. Poi, lei stessa si domanda come sia possibile che l’intimità sessuale generi benevolenza, senso di protezione verso l’altro, qualcosa che assomiglia all’amore, e che forse lo è. Rosa tenta di sopravvivere anche attraverso Ziegler, ma forse è per Gregor che sopravvive. Volevo raccontare la sua progressiva, corporea intimità con il male, che non passa solo per l’ingestione del cibo di Hitler, ma anche per gli amplessi con un nazista. (Attenzione: Ziegler non è il nemico. È un tedesco come lei: questo mi interessava, che in lui la colpevolezza fosse oggettiva, non accidentale, posto però che lui e Rosa appartengono entrambi al Terzo Reich). Eppure, tratto questo rapporto come qualsiasi altro “abbia asilo sulla terra”, tanto che Rosa a un certo punto arriva a pensare che quel loro sentimento sia degno, che non contenga nulla di riprovevole se, abbracciando Ziegler, lei ricomincia a respirare”. 

 Anche nei suoi libri precedenti c’è un’attenzione particolare nei confronti della corporeità. Come mai questa scelta?

“Non è una scelta teorica o aprioristica. Credo che gli esseri umani siano soprattutto il loro corpo, e che nell’impossibilità di controllare il corpo, che è destinato per natura a deteriorarsi, spegnersi, marcire, ci sia la metafora esatta di che cos’è la vita. Qualcosa in cui si è incastrati senza averlo scelto, qualcosa che non si può fino in fondo controllare, e che nonostante questo cerchiamo di difendere con le unghie e con i denti, come se, sotto sotto, sperassimo di essere immortali”.
Rossella Montemurro
Pubblicità

Pubblicità
Copy link
Powered by Social Snap