sabato, 27 Aprile 2024

Apt Basilicata, si apre la terza edizione di Fucina Madre

Dalla ceramica all’arte orafa, dal legno all’uncinetto, dall’arte digitale al recupero di antiche tradizioni manifatturiere. E’ un vero e proprio mosaico dell’eccellenza lucana quello che 44 artigiani, maker e designer, provenienti da ogni parte della Basilicata,...


“(…) La vita nel suo inanellarsi di azioni e funzioni per tenere in ordine uno spazio costruito, ammobiliato, per riempire lo stomaco e alimentare i corpi, per tenere collegata la mente al resto del mondo tramite uno schermo. Che cosa piccola, poco solenne eppure sicura e tutelata era l’esistenza moderna, nei Paesi dove si curavano i malati, si rianimavano i morenti, si mettevano le persone in sedia a rotelle, anziché abbandonarle nel bosco, preda delle fiere, come succedeva nei posti dove i demoni contavano più dei medici e la selezione della vita si nutriva di superstizione e bisogno. Ci avevo mai pensato?
Ci pensavo quasi tutti giorni, a dire il vero. Per quanto fossi immersa in una quotidianità in cui non mancavano l’affetto e le dolcezze familiari, il bosco me lo portavo sempre dietro.
Poco prima di uscire quella sera stessa, mentre mi vestivo stando sul letto, avevo afferrato una pietra riportata da una vacanza al mare di molti anni prima e rimasta come fermacarte sul comodino. Era liscia, con striature regolari grigie alternate a fasce bianche granulose. L’avevo fatta scivolare sulle gambe che avevo appoggiato con la pianta del piede al muro, il sasso tondo era sceso dal ginocchio verso l’incavo del ventre. Arrivato sopra la cintura ne avevo avvertito finalmente il peso e il freddo.
Ma prima, per tutto il tempo in cui la sua superficie aveva slittato sulla pelle della gamba, sul dosso del ginocchio e della parte superiore della coscia, dove erano stati o cosa erano stati il sasso e la pelle? All’estraneità del sasso ero abituata: era l’estraneità del fuori, del mondo. Ma alla estraneità della mia pelle, che non faceva più da schermo e da mediazione con le vene che stavano sotto, i tendini, i muscoli, le ossa, il sangue e infine la mente, a quella non mi sarei mai abituata”.
La notte ha la mia voce (Einaudi, Stile libero Big) di Alessandra Sarchi è un libro diretto e spietato, non ha mezze misure ma è profondamente autentico, duro, descrive un cambiamento tragico – la perdita dell’uso delle gambe – e improvviso nella vita di una donna giovane. L’autrice lascia spazio alle sensazioni senza edulcorarle: ci sono rabbia, sofferenza, disagio, vergogna quando ci si trova a convivere con un corpo che non è più il nostro e si deve calibrare ogni cosa su questo nuovo status. Inizia una rieducazione fisica che dovrebbe andare di pari passo con quella psicologica anche se quest’ultima segue percorsi tutti suoi che molto spesso hanno tempi dilatati o, peggio, oppongono resistenza e non accettano la nuova realtà.
“Presto ho scoperto di essere morta.
Siccome pero mi toccava continuare a vivere, ho tirato avanti. Credo che capiti a molti, se non a tutti, e i più fanno come me: tirano avanti, senza cedere alla tentazione di voltarsi indietro. Tentazione che prima o poi arriva.”. Con queste parole la Sarchi inizia ad accompagnare il lettore nel cuore di una tematica – la paralisi irreversibile – che spaventa o indispone mentre lei lo inchioda alle pagine, non c’è via di fuga. Così, ci si avvicina alla vita di una donna che è stata distrutta da un incidente. Pochi secondi, senza cinture di sicurezza, e i sogni, le certezze di un futuro “normale” si sgretolano in un presente claustrofobico fatto di letti d’ospedale, riabilitazione e rassegnazione.
Anche Giovanna è condannata sulla sedia a rotelle ma lei vive la sua nuova condizione con un atteggiamento diverso: i suoi movimenti, la sua voce, i suoi pensieri hanno un’energia contagiosa. Le pareti di casa sono tappezzate dalle foto di ballerini, ritraggono passi di danza e particolari (mani, piedi); Giovanna, la Donnagatto, il movimento lo sente ancora dentro di sé e riesce in qualche modo ad esteriorizzarlo senza piangersi addosso. Giovanna parla senza pudore dei suoi tanti uomini mentre il compagno e la figlia piccola della protagonista rimangono sempre sullo sfondo della storia: Giovanna guarda avanti, l’io narrante è bloccato in una condizione psicologica di negatività.
Il contrasto tra le due personalità sarà la chiave che aiuterà entrambe: perché Giovanna, a dispetto delle apparenze, ha un segreto.
La notte ha la mia voce è diviso in tre parti – Terra, Aria e Acqua, rispettivamente come il contatto con il terreno che, dopo la paralisi, viene a mancare quando si sta in piedi; la fame di aria dopo aver metabolizzato la nuova situazione e l’acqua intesa come elemento primordiale, movimento, vita, cambiamento.
La penna di Alessandra Sarchi è tagliente e vera, non lascia scampo, come la storia che racconta, probabilmente perché le condizioni delle due protagoniste sono le stesse dell’autrice da alcuni anni in seguito a un incidente.
La Sarchi è nata a Reggio Emilia nel 1971, vive a Bologna. Ha pubblicato Segni sottili e clandestini (Diabasis 2008). Per Einaudi Stile Libero è uscito nel 2012 il romanzo Violazione, vincitore del premio Paolo Volponi opera prima, nel 2014 L’amore normale.
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