lunedì, 17 Giugno 2024

Un giorno scrissi alla lavagna: “Nostalgia” ed invitai i giovani a riflettere.

La riflessione la feci con una poesia di Euripide di Salamina.

Euripide di Salamina nacque a Salamina intorno al 485 a.C., ma, secondo la tradizione, si fa risalire il suo giorno di nascita al giorno della famosa battaglia di Salamina per creare una linea di continuità tra i tre maggiori tragediografi greci (Eschilo fu combattente a Salamina, mentre Sofocle diresse il peana per la vittoria).

Nacque da una famiglia ateniese rifugiata sull’isola per sfuggire ai Persiani e il suo nome verrebbe dall’Euripe, il canale dove si svolse la battaglia.

Aristofane, comunque, suggerisce a più riprese nelle sue commedie la bassa estrazione sociale del poeta, confermata da Teofrasto: tuttavia, la sua cultura dimostra una educazione raffinata, acquisita dallo studio presso sofisti come Protagora, che non sarebbe stata possibile senza una condizione sociale agiata, come dimostrato anche dal fatto che avrebbe messo insieme una ricca biblioteca, una delle prime di cui si faccia menzione.

Contemporaneo di Socrate, ne divenne amico.

Euripide si propose pubblicamente come tragediografo a partire dal 455 a.C.: la sua prima opera, Le Peliadi, ottenne il terzo premio.

Divenne presto popolare, pur avendo ottenuto solo cinque vittorie, di cui una postuma.

Verso il 408 a.C., sfiduciato per alcuni insuccessi, Euripide si ritirava a Magnesia, poi in Macedonia, alla corte di Archelao, dove sarebbe morto, si dice, sbranato dai cani (ma la notizia è quantomeno dubbia) o ucciso da alcune donne mentre, di notte, si stava recando dall’amante di Archelao.

Solo dopo la sua morte gli ateniesi gli dedicarono nel 330 a.C. una statua di bronzo nel Teatro di Dioniso.

La poesia è la seguente:

Augello che sulle rupestri

Scogliere d’oceano,

effondi nel pianto,

o vaga alcione,

il nostalgico canto:

riveli a chi ben sa comprendere,

coi gemiti tuoi, alcione,

che invochi, che invochi

lo sposo perduto: e pur io

alcione senz’ali, m’accordo

al dolente tuo canto al mio …

E’ un dialogo straordinario e malinconico tra il pianto dell’alcione e il pianto di una donna.

Una donna sola e solitaria nel ricordo dell’amore perduto.

L’alcione che pigola laggiù fra le scogliere salmastre.

La stessa nostalgia.

Lo stesso amore segreto.

La stessa inutile attesa.

Non è dato all’uomo volarsene lontano dalla propria condizione: senz’ali, egli è costretto a starsene nel dolore o a non sapersi più vivo.

Nicola Incampo

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