martedì, 7 Maggio 2024

Fucina Madre 2024, Nicoletti: “Un’edizione da ricordare”

Circa 4 mila e 500 persone hanno ammirato le opere dei 44 artigiani lucani che dal primo al 5 maggio hanno esposto le loro opere negli ambienti de Le Monacelle, in via Riscatto a Matera, nell’ambito della terza edizione di Fucina Madre, voluta e organizzata da Apt e...

In questi giorni di caldo africano ho ripreso tra le mani un libro che comprai qualche anno fa e che ogni tanto rileggo per la sua “sapienza”.

Il libro è Il Canto del Derviscio di Rūmī Jalāl ad-Dīn, Parabole della sapienza sufi.

Il Sufismo, importante corrente della mistica islamica, si propone di recuperare lo spirito originario dell’insegnamento di Maometto, deplorando l’esteriorità e l’ossequio puramente formale ai dogmi religiosi per attingere a un’altra dimensione, specificamente interiore.

Il Canto del Derviscio è una raccolta di alcune tra le più significative storie tratte dalle opere di Jalaloddin Rumi, grande letterato e uno dei più importanti maestri Sufi.

Egli auspica un mondo senza libri, né tutori, né precettori, in cui l’uomo possa attingere alla verità direttamente scrutando nel proprio intimo.

L’uomo di Rumi è perfetto e non ha bisogno di cercare qualcosa all’esterno: questo è il tipo di consapevolezza che dovrà sviluppare; se riuscirà a farlo, si renderà conto di esaurire in sé il nucleo più autentico di ogni dottrina religiosa, giacché Dio non si trova sulla Croce, né nel tempio indù, né nella moschea, ma piuttosto, com’è evidente a chi su sondarne i recessi, nel proprio cuore.
E in nessun altro luogo.

La “parabola” che voglio rileggere con voi è la seguente:

“Un povero pastore, sentendosi debole e scoraggiato, spesso invocava Dio pregandolo ad alta voce: Signore io voglio vederti, sentirti, toccare! Mostrami dove sei, qual è la dimora in cui un giorno mi accoglierai!

Non voglio più essere solo, di notte ho paura e voglio che sia tu a tenermi compagnia.

Perché non ti fai vedere?

Io mi impegnerò a soddisfare ogni tua richiesta.

Pulirò i tuoi abiti e le tue calzature.

Pettinerò dolcemente i tuoi capelli e curerò la piega delle tue vesti.

Tu sei il mio Signore, mia forza e sostegno, e farò tutto questo per te.”

Mentre il pastore pregava in questo modo, si trovò a passare di lì il patriarca Mosè, che si mostrò subito indignato: “Ma che cosa dici? Osi rivolgerti a Dio così?! Pensi forse che egli abbia una voce ed un corpo simile a te? Il Signore ti tiene sempre compagnia, e neppure per un attimo ti lascia solo. Eppure non ha corpo. Il mantello di Dio è il mondo, e quello non puoi rattopparglielo. Egli cammina nell’universo, ma senza indossare sandali o calzari. Come faresti a ripararli?”

Il povero uomo fu molto scosso da questi rimbrotti, e si allontanò a capo chino. Era disperato perché non sapeva più come lodare Dio.

Dopo alcuni istanti Mosè avvertì accanto a sé la presenza dell’Eterno.

“Mosè, quel mio umile servo, il pastore, non meritava i tuoi rimproveri. Parlava così perché era il suo modo di esprimersi come pastore. Le tue idee ti sembrano errate. Eppure ognuno parla nella sua lingua, con le sue parole. L’artigiano si riferirà al suo mondo, vedendomi come un vasaio, e si metterà a costruire giare e orci per farmi sapere dove depositare la mia acqua. E il maniscalco mi appronterà un’imponente cavalcatura per farmi muovere più rapidamente.

Ogni creatura vede Dio a modo suo, e pensa che il suo Signore abbia le sue stesse esigenze.

Perché criticare che parla da vasaio o da pastore … Se il cuore è colmo di devozione, l’eloquenza non serve.”

«Queste storie sono rivolte agli amici, affinché imparino a guardare. E intraprendano il cammino, se già non si sono messi in viaggio.»

Nicola Incampo

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