sabato, 20 Aprile 2024

Siamo nell’epoca delle serie TV, eppure Gilmore Girls rimane ancora la mia serie preferita.

Può darsi che io sia di parte, è vero. Tutti sanno che il personaggio di Alexis Bledel, Rory, era talmente simile a me e la sua storia, per certi aspetti, così simile alla mia, che è impossibile che io parli male del plot.

Tuttavia, nel vedere i quattro episodi del sequel, ho potuto confermare – con una certa soddisfazione – che ciò che ho visto da adolescente non è stato sempre spazzatura.

Gilmore Girls, contiene infatti molti riferimenti alla cultura americana: nomi di attori, personaggi famosi, musical e citazioni di film ci sono in continuazione e rendono i dialoghi molto divertenti, anche per chi i 18 anni li ha passati da un po’.

Si potrebbe ritenere inverosimile che una persona parli citando ogni due per tre qualcosa, ma è proprio questo a rendere così unica e stravagante la serie, assieme alla fantasiosa ambientazione, Stars Hollow, piena di personaggi così «improbabili»: c’è Kirt, lo zimbello tuttofare del villaggio, la severissima Signora Kim, le pettegole Patty e Babette o il cittadino modello Taylor, sempre in cerca di qualcosa da promuovere per il bene della città.

Potrebbero sembrare tutti un po’ irreali o un po’ steroeotipati, ma, a ben guardare, in ogni storia, romanzo o film con una vena ironica che si rispetti, i personaggi devono essere ben “calcati” nelle loro caratteristiche per diventare portatori di un qualche messaggio.

Ed è ciò che Gilmore Girls esattamente fa: rendere ogni personaggio una sorta di cliché per farne portatore delle ossessioni o di quei valori, a volte esasperati, del nostro tempo: si pensi all’ambiziosa e competitiva Paris, che vuole trasudare successo ad ogni passo, e cammina portandosi dietro una ventiquattrore vuota pur di far capire al mondo che è una donna importante, o alla stessa Emily Gilmore, emblema di quella ricchezza che con i soldi può tutto, e che per rendere Luke, all’altezza della sua benestante famiglia, vuole a tutti costi fargli aprire un franchising, anche contro la sua volontà.

Ma ciò che ho apprezzato di più del sequel, è che ha davvero raccontato come è andata a finire, adeguandosi ai tempi, per come sono cambiati.

Mi aspettavo, infatti, un lieto fine (come spesso accade nei film americani, così pieni di ottimismo) con una Rory realizzata, famosa e sposata con figli, e invece ho ritrovato esattamente ciò che molti della nostra generazione, cresciuti con il suo personaggio, sono diventati: precari, a volte costretti a tornare a casa tra un lavoro e l’altro, perché sottopagato o non pagato affatto, sospesi in relazioni che non prendono una via, il tutto nonostante le ottime premesse con le quali si è tentato di costruire il proprio futuro, fin dal liceo. Ed è qui, a mio parere, il punto di forza delle quattro puntate del sequel: al contrario di quello che è accaduto nel terzo atto di Bridget Jones, dove risulta difficile  identificarsi in un personaggio, che seppur ancora molto divertente, perde la sua presa nel distribuirsi tra Colin Firth e Patrick Dempsey, Rory ci ha seguito davvero fino ai nostri giorni, ed è cresciuta, esattamente, nel modo in cui abbiamo dovuto farlo noi.

Rossella Ciarfaglia

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