Il Prefetto di Matera, dott.ssa Cristina Favilli, a seguito delle dimissioni di diciassette consiglieri comunali su trentadue del Comune di Matera ha sospeso, in attesa di scioglimento, il Consiglio comunale di Matera, essendosi determinata l’ipotesi dissolutoria...
Siamo nell’epoca delle serie TV, eppure Gilmore Girls rimane ancora la mia serie preferita.
Può darsi che io sia di parte, è vero. Tutti sanno che il personaggio di Alexis Bledel, Rory, era talmente simile a me e la sua storia, per certi aspetti, così simile alla mia, che è impossibile che io parli male del plot.
Tuttavia, nel vedere i quattro episodi del sequel, ho potuto confermare – con una certa soddisfazione – che ciò che ho visto da adolescente non è stato sempre spazzatura.
Gilmore Girls, contiene infatti molti riferimenti alla cultura americana: nomi di attori, personaggi famosi, musical e citazioni di film ci sono in continuazione e rendono i dialoghi molto divertenti, anche per chi i 18 anni li ha passati da un po’.
Si potrebbe ritenere inverosimile che una persona parli citando ogni due per tre qualcosa, ma è proprio questo a rendere così unica e stravagante la serie, assieme alla fantasiosa ambientazione, Stars Hollow, piena di personaggi così «improbabili»: c’è Kirt, lo zimbello tuttofare del villaggio, la severissima Signora Kim, le pettegole Patty e Babette o il cittadino modello Taylor, sempre in cerca di qualcosa da promuovere per il bene della città.
Potrebbero sembrare tutti un po’ irreali o un po’ steroeotipati, ma, a ben guardare, in ogni storia, romanzo o film con una vena ironica che si rispetti, i personaggi devono essere ben “calcati” nelle loro caratteristiche per diventare portatori di un qualche messaggio.
Ed è ciò che Gilmore Girls esattamente fa: rendere ogni personaggio una sorta di cliché per farne portatore delle ossessioni o di quei valori, a volte esasperati, del nostro tempo: si pensi all’ambiziosa e competitiva Paris, che vuole trasudare successo ad ogni passo, e cammina portandosi dietro una ventiquattrore vuota pur di far capire al mondo che è una donna importante, o alla stessa Emily Gilmore, emblema di quella ricchezza che con i soldi può tutto, e che per rendere Luke, all’altezza della sua benestante famiglia, vuole a tutti costi fargli aprire un franchising, anche contro la sua volontà.
Ma ciò che ho apprezzato di più del sequel, è che ha davvero raccontato come è andata a finire, adeguandosi ai tempi, per come sono cambiati.
Mi aspettavo, infatti, un lieto fine (come spesso accade nei film americani, così pieni di ottimismo) con una Rory realizzata, famosa e sposata con figli, e invece ho ritrovato esattamente ciò che molti della nostra generazione, cresciuti con il suo personaggio, sono diventati: precari, a volte costretti a tornare a casa tra un lavoro e l’altro, perché sottopagato o non pagato affatto, sospesi in relazioni che non prendono una via, il tutto nonostante le ottime premesse con le quali si è tentato di costruire il proprio futuro, fin dal liceo. Ed è qui, a mio parere, il punto di forza delle quattro puntate del sequel: al contrario di quello che è accaduto nel terzo atto di Bridget Jones, dove risulta difficile identificarsi in un personaggio, che seppur ancora molto divertente, perde la sua presa nel distribuirsi tra Colin Firth e Patrick Dempsey, Rory ci ha seguito davvero fino ai nostri giorni, ed è cresciuta, esattamente, nel modo in cui abbiamo dovuto farlo noi.
Rossella Ciarfaglia