giovedì, 25 Aprile 2024

Oramai è considerata una
sorta di parolaccia. Nel senso comune, nella stagione della separazione
crescente tra la gente e le elites, il potere viene coniugato nella sua
accezione più negativa, come potenza negativa che si oppone ai bisogni e ai
diritti delle persone. Nelle “Lezioni di democrazia”, organizzate con
la Fondazione Feltrinelli, nel quadro di “Future digs”, le
riflessioni della Fondazione Matera Basilicata 2019 sul futuro che verrà,
il potere è restituito alla sua matrice positiva: la potenza collettiva di
realizzare, di trasformare la realtà, di progettare il futuro. Nel primo
incontro, ieri pomeriggio alla Casa Cava di Matera, moderato dalla giornalista
dell’Huffington Post, Angela Mauro, la riflessione e la discussione si sono
focalizzate sul primo tema.
“Matera capitale europea della cultura nasce proprio come grande
esperienza di partecipazione e di protagonismo sociale” ha ricordato Salvatore
Adduce, presidente della Fondazione Matera Basilicata 2019. “La nostra
scommessa è stata quella di liberare la cultura dall’opprimente vincolo con la
sua dimensione elitaria per restituirla alle pratiche di produzione e di
fruizione di massa. La riflessione proposta dalla Fondazione Feltrinelli si
innesta ovviamente sul dibattito aperto dall’esito elettorale del marzo 2018,
ma il tema delle nuove forme e canali riguarda l’intero Occidente”.  

“Il gap cresce – ha
confermato nel suo saluto Spartaco Puttini ricercatore della Fondazione
Feltrinelli – e perciò ripartiamo dal basso per cercare una risposta alla
crisi della democrazia, confrontandoci con temi centrali come l’inclusione
sociale e l’integrazione europea”.

E proprio alla domanda se
l’attuale crisi della democrazia rappresentativa sia una malattia dai
possibili  esiti mortali o una opportunità di crescita e di rinnovamento è
stata dedicata la lezione di Giovanni Moro, un sociologo politico con una
robusta matrice nell’epistemologia delle scienze sociali e quarant’anni di
impegno culturale e politico sul terreno della partecipazione democratica
dal Movimento federativo democratico a Cittadinanzattiva. La sua
riflessione è partita dal successo eccessivo del termine: 10 milioni di
citazioni in italiano su google, cento milioni in inglese. “Eppure – ha
sottolineato – manca ancora una definizione chiara e condivisa”.

Per Moro sono tre i
fattori di crisi sul piano concettuale: le dilaganti parole magiche che
infestano la semantica della partecipazione; la crisi del paradigma della
cittadinanza per cui il potere indebolito degli stati declina la cittadinanza attiva
come cittadinanza aumentata e infine l’uso di concetti e categorie difettose.

Fatta “pulizia della
polvere” il professore illustra il valore positivo del concetto e prova a
identificare il fenomeno.
Nella visione standard la partecipazione dei cittadini consiste
nell’influenzare le leadership che detengono il potere. Il circuito è così
organizzato: i cittadini pongono domande attraverso i partiti, il sistema
politico risponde, una macchina cieca ed efficiente, la pubblica
amministrazione le mette in opera. Giovanni Moro cita come esempi di questa
ostilità di fondo alla partecipazione i casi di imputati per eccesso di
cittadinanza.
A fronte di questa chiusura delle istituzioni ai cittadini restano la protesta,
il lobbing, la costruzione di capitale sociale, le pratiche di “ginnastica
democratica”. Moro richiama la lezione di Ulrich Beck nel 1993:
“I cittadini esercitano concretamente i loro diritti riempiendoli della
vita per la quale ritengono che valga la pena lottare”.
Che cos’è quindi la cittadinanza attiva nella definizione di uno dei suoi
principali artefici? “Una pratica che ha a che fare con il potere di
iniziativa riconosciuto dall’articolo 118 della Costituzione, è un’azione
collettiva che si concretizza nell’esercizio di poteri e responsabilità, è un
impegno per l’interesse generale che si svolge sul terreno delle politiche
pubbliche e non della politica, gode di elevata fiducia ma non è un’alternativa
alla democrazia rappresentativa”. Una realtà che in Italia  coinvolge
due milioni di persone sul terreno della tutela dei diritti, della cura dei
beni comuni, dell’empowerment adottando strategie di “advocacy” (dare
voce), servizio e intervento diretto.

Se è ancora valida la
definizione di Max Weber (“la capacità di incidere sul corso
delle cose e sui comportamenti di altri soggetti”) molti sono, per il
professor Moro, i poteri dei cittadini attivi e altrettanto notevoli gli
effetti e gli impatti di queste pratiche collettive.

“La cittadinanza
attiva – conclude Moro – ridefinisce il territorio della democrazia, costruisce
nuove relazioni di rappresentanza, afferma nuovi diritti, politicizza lee
politiche pubbliche, dà forma alla cittadinanza comune, resiste alla dittatura
delle maggioranze e al dominio delle minoranze”.

A integrare la “lezione magistrale” del sociologo politico i
contributi di Massimiliano Sechi, ricercatore del Centro di Studi Sociali
dell’Università di Coimbra, e di Silvana Kuhtz. Ricercatrice
dell’Università della Basilicata. Il primo, a partire dall’esperienza
portoghese, in cui la partecipazione dei cittadini cresce come funzione di
supplenza nella crisi violenta del welfare, ha riflettuto sul conflitto tra
forme di attivazione collettiva e individuale e sul peso della dimensione di
scala per innescare forme di cooperazione virtuosa tra enti locali e
cittadinanza. La sua ricerca è dedicata agli spazi pubblici aperti degli enti
locali, attraverso le piattaforme di partecipazione.

Per Silvana Kuhtz,
invece, ci sono anche parole magiche positive, che fanno accadere le cose.
Parole di ispirazione e di narrazione. E su due esperienze del molto piccolo,
capaci di “trasformare gli ideali in realtà” è stata dedicata la sua
testimonianza sul “potere di realizzare”: l’organizzazione degli orti
urbani a Bari, l’esperienza degli affitti gratuiti nella fase di lancio di
attività per rianimare il centro urbano di Putignano.
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