mercoledì, 15 Maggio 2024

Matera, incidente stradale in via Cappuccini. Ferite tre persone

Alle ore 14:20 circa la squadra della Sede Centrale dei Vigili del Fuoco di Matera è intervenuta per un incidente stradale in via Cappuccini. I mezzi coinvolti sono: un bus cittadino con all’interno 4 passeggeri e l’autista, tutti illesi, una Lancia Y con a bordo solo...

Riceviamo e pubblichiamo il
ricordo del Carabiniere Giusto Agnesod, ucciso a Irsina il 4 marzo 1944, articolo
scritto dal Capitano Antonio De Rosa – comandante della Compagnia Carabinieri
di Tricarico – e pubblicato sul Notiziario Storico dell’Arma dei Carabinieri.


“Ci sono storie che non
possono essere dimenticate.
Vite, troppo giovani,
spezzate durante l’adempimento del dovere. La storia del Carabiniere Giusto
Agnesod è una di queste. Il suo sacrificio, che ha contribuito lustro e
prestigio all’Arma dei Carabinieri, merita di essere testimoniato alle future
generazioni.


Giusto Agnesod aveva solo
23 anni quando fu ucciso in servizio.

Figlio di Gregorio e
Ingler Orfelina, proveniva dal piccolo comune di Lessolo (TO), dove era nato il
13 giugno 1921. Si era arruolato nell’Arma nel 1940, proprio nel giorno del suo
diciannovesimo compleanno, e dopo il periodo di addestramento presso la Legione
Allievi Carabinieri di Roma, il 1° dicembre successivo venne assegnato alla
Legione Carabinieri di Bologna, partecipando alle operazioni della 206^ Sezione
Mista CC.RR., mobilitata in Albania. Il 30 settembre 1943 giunse in forza
presso la Legione Territoriale di Bari da cui all’epoca dipendeva la Stazione
di Irsina, comune in provincia di Matera.
Era il terzo di 4 figli,
tra cui Perfetto e Germano, entrambi carabinieri. Il destino fu nefasto anche
per quest’ultimo, morto il 3 giugno 1943 nell’ospedale da campo n.76 di Atene durante
le operazioni di guerra svoltesi in territorio greco-albanese alle quali aveva preso
parte con il 1° Battaglione Mobilitato CC.RR..
La notte del 4 marzo 1944
Giusto Agnesod era di pattuglia a Irsina. Dall’una alle cinque, insieme al
Carabiniere Giuseppe Rubino, doveva vigilare, a piedi, sul territorio di Irsina
e, in particolare sulla strada statale 96 che dal paese del Materano conduce a Gravina
in Puglia (BA): un’arteria attraversata all’epoca da centinaia di automezzi
militari che, come riportato ne La lunga marcia contadina di Giacomo Di Ciocia,
da Bari portavano rifornimenti e truppe al fronte alleato. A causa dei numerosi
tornanti della 96 e per la mole dei mezzi, questi avevano un’andatura di marcia
estremamente lenta, diventando di notte facili prede di giovani che riuscivano,
senza difficoltà, a impossessarsimdi parte del carico.
Quella notte, Agnesod e
Rubino, dopo aver controllato la succursale del Banco di Napoli – erano stati
infatti avvertiti alcuni rumori dall’interno, l’istituto di credito era tra
l’altro già stato oggetto di un tentativo di furto nei giorni precedenti – continuarono
il giro d’ispezione proprio lungo la statale 96 in direzione di Gravina.
La presenza notturna,
costante, dei militari provava così a ostacolare quel gruppo di giovani
irsinesi che assaltando i mezzi militari alleati e depredando la privata
proprietà era divenuto una reale minaccia per la sicurezza pubblica. È in
questo contesto che prese forma l’idea di uccidere uno dei carabinieri in
servizio.
All’una e trenta la pattuglia
incrociò due irsinesi, Giuseppe Casino e Maria Altieri, che con due traini stavano
andando a Matera per prendere della farina destinata alla popolazione. Poco più
avanti, i carabinieri controllarono due giovani, poi identificati in Nicola Benedetto
e Paolo Dilillo, entrambi irsinesi, che alla loro vista tentarono di spostarsi
al lato della strada. Fu allora che Benedetto, per nasconderla, lasciò scivolare
ai piedi una pistola illegalmente detenuta.
Un gesto che non sfuggì
ai carabinieri. L’arma fu raccolta, e dopo una fugace perquisizione, i due
ragazzi furono invitati a seguire i militari in caserma. Il gruppo avanzava con
in testa il Carabiniere Agnesod, in mezzo i due fermati, ed in ultimo il
Carabiniere Rubino. Percorsi una ventina di metri dal 1° Vicolo Fontana, dove
questo fa angolo con il Corso Umberto, sbucò un terzo individuo che si avventò
su Agnesod e, dopo una breve colluttazione, lo uccise con un colpo di pistola
alla testa sparato a bruciapelo.
I due fermati, intanto,
approfittando degli attimi di concitazione, si scagliarono contro Rubino e,
sottraendogli l’arma, gli spararono. Fortunatamente la pistola s’inceppò. Anche
il Carabiniere Rubino, come Agnesod (“Armato, non ha fatto uso delle armi, non
ha ucciso, non ha voluto uccidere, per rispetto sacro della vita, alla vita di
giovani traviati, nella speranza di ricondurli alla via del bene. Egli continua
così la tradizione della sua Arma Benemerita, tradizione gloriosa dell’eroismo
e di sacrificio”, affermò il parroco, don Peppino Arpaia, nell’omelia durante i
funerali solenni), non usò l’arma in dotazione, preferendo correre il rischio
di essere ucciso per non uccidere; la sua pronta reazione sorprese i tre
criminali che fuggirono via.
Rubino corse a chiedere
aiuto, prima a Giuseppe Casino e Maria Altieri che – essendo a poca distanza –
avevano udito il colpo di pistola, poi al Comandante della locale Stazione dei
Carabinieri Reali, il Maresciallo Maggiore Francesco Brignola, che accorse
insieme al Vice Brigadiere Marco Ieva, che abitava con la famiglia a poca
distanza dal luogo del delitto.
Le indagini per
individuare gli autori del grave omicidio scattarono immediatamente.
Furono effettuate – senza
risultati – le perquisizioni delle abitazioni dei primi due fermati che però
erano fuggiti per evitare la cattura.
Fondamentale fu la testimonianza
di Maria Altieri; grazie a lei, infatti, si riuscì a risalire a Vincenzo
Armiento e Michele Tricarico che erano stati notati in compagnia di Benedetto e
Dilillo pochi istanti prima del controllo dei carabinieri.
Nelle ore successive al delitto
venne fermato Armiento: dichiarò di essere scappato alla vista dei carabinieri,
rientrando nella propria abitazione, e di non aver assistito né alla
perquisizione del Dilillo e del Benedetto né alla successiva aggressione.
Armiento ammise inoltre che l’attacco ai carabinieri era un qualcosa che da
tempo veniva caldeggiata dai suoi compagni: lamentavano degli sgarbi ricevuti
durante la fila innanzi le rivendite di tabacco e mal tolleravano l’attiva vigilanza
esercitata in paese dai carabinieri. Già un mese prima, armati, avevano teso
loro un agguato nei pressi di “Porta Arenacea”, l’antica porta di accesso al centro
storico di Irsina. Un agguato che non si era concretizzato perché la pattuglia
a piedi dei carabinieri non giunse “a tiro”. Armiento, infine, confessò di essersi
associato con gli altri tre per commettere furti nelle aziende agricole, dagli
autocarri militari alleati, un tentativo di furto presso il locale Banco di
Napoli, numerose rapine in danno di viaggiatori e contrabbandieri, e altro
ancora. L’assassinio suscitò ovunque un’ondata di riprovazione e tutti i
comandi Arma della zona si adoperarono con tenacia per arrestare gli autori. La
salma del Carabiniere Agnesod fu esposta per più giorni nella Chiesa
dell’Addolorata al triste e commosso rimpianto di tutta la popolazione che sfilò
in lacrime davanti alla sua bara.
Dopo l’assassinio, indosso
al povero carabiniere furono trovati pochi segni di una giovane vita spezzata
prima del tempo: un portafoglio di pelle color marrone, con duemila lire, una penna
stilografica, un pacco di sigarette popolari con 17 sigarette, un pettine
tascabile, un temperino a forma di pesce, una catenina di metallo bianco, qualche
bottone e varie fotografie della sua famiglia, che purtroppo non poté più
riabbracciare, neanche da morto.
Le manette ai polsi di
Vincenzo Armiento scattarono il 7 marzo 1944, mentre gli altri tre componenti
del gruppo – sottraendosi all’esecuzione di un mandato di cattura emesso dal
Giudice Istruttore di Matera il 17 marzo 1944 – si diedero alla latitanza per
le campagne di Borgo Taccone costringendo i vari massari della zona a fornire
loro cibo e alloggio, sotto la minaccia di armi. Furono agevolati da
un’approfondita conoscenza dei luoghi, terreni e masserie, e dall’appoggio di
alcuni familiari.

La fuga di Tricarico e
Benedetto si concluse il 6 dicembre 1944, quella di Dilillo undici giorni dopo.

Tutti e tre vennero
trovati in possesso di armi e cavalli rubati.

Le indagini stabilirono
che a sparare fu Tricarico.
Sbucato improvvisamente
da un vicolo laterale, aggredì Agnesod allo scopo di disarmarlo e liberare i
compagni fermati qualche istante prima, mordendolo selvaggiamente al dito;
nella colluttazione seguitane, gli sparò un colpo di pistola a bruciapelo,
provocandone la  morte istantanea. Pur non
avendo potuto il Carabiniere Rubino – unico teste presente al fatto –
individuare l’omicida, deposero in tal senso una sensata serie di circostanze,
prima fra tutte la chiamata in correità di Dilillo dopo la cattura, che non
apparve in nessun modo sospettabile ed inficiabile, partendo da un fido compagno
di furfanterie, sia nel periodo anteriore al delitto sia nel successivo periodo
di comune latitanza.

Il 3 settembre 1946 la
Corte di Assise di Potenza dichiarò i tre colpevoli dell’omicidio aggravato del
giovane carabiniere e di vari episodi di furto continuato e rapina, condannando
Tricarico alla pena di anni trenta di reclusione, mentre Nicola Benedetto e
Dilillo alla pena di anni ventidue e mesi otto di reclusione.


Dall’omicidio venne, invece,
prosciolto Armiento che riportò soltanto una condanna per furto.

Nella piccola comunità irsinese
è ancora vivo il ricordo di Agnesod: nel 1981 l’Amministrazione comunale gli ha
intitolato una strada cittadina. I suoi resti mortali sono riposti in un
piccolo sacrario militare realizzato nel cimitero comunale”.

Antonio
De Rosa

 

Di seguito l’orazione
funebre pronunciata dal parroco Don Peppino Arpaia nella Cattedrale di Irsina
in occasione dei funerali del carabiniere Giusto Agnesod.

“Irsina ha lavato col
pianto l’onta di quest’esecrante delitto. Quest’immensa folla, che circonda il
feretro e suffraga con la preghiera l’anima benedetta, è la manifestazione più
viva della sua esecrazione ed indignazione.
Da ieri tutti i volti hanno lagrime, tutti i cuori hanno palpiti di commossa
pietà verso questo milite, vittima immacolata del dovere. Si, il carabiniere
Giusto Agnesod, è vittima senza macchia del dovere. Dovere compiuto con la più
coscienziosa scrupolosità.
Armato, non ha fatto uso delle armi, non ha ucciso, non ha voluto uccidere, per
rispetto sacro della vita, alla vita di giovani traviati, nella speranza di
ricondurli alla via del bene.
Egli continua così la tradizione della sua Arma Benemerita, tradizione gloriosa
dell’eroismo e di sacrificio.
Il carabiniere italiano non è un poliziotto, né un gendarme. Pura espressione
dell’anima nazionale il carabiniere italiano, istituzione unica, vanto della
nostra Patria, è plasmato d’umanità e di saggezza, di prudenza e di bontà,
d’eroismo e di sacrificio. Fior fiore della gioventù italica, i carabinieri
compiono nel decoro dell’onorata divisa, nella compostezza del loro tratto,
un’opera d’educazione, costituiscono una scuola di gentilezza e di civiltà.
Una mano omicida e sacrilega ha stroncato questa giovinezza degna dell’arma
Benemerita, ha reciso un fiore di questo giardino di virtù e d’elezione, ha
spento la vita di quest’eroe, che per non uccidere è stato ucciso.
Fra i carabinieri della nostra stazione, tutti cari figlioli, il carabiniere
Agnesod attraeva l’attenzione per una nota particolare di sensibilità del suo
carattere.
Io lo ricordo, ricordo di averlo osservato un giorno mentre regolava la fila
delle donne dinanzi ad una rivendita di sale. Mi colpì il riguardo che egli
aveva verso le donne: un contegno formato di bontà condiscendente e rispettosa,
e lo vidi guidare amorevolmente una bambina in mezzo alla folla con sentimento
di paterna protezione.
E’ in quest’atto d’amore e di bontà gentile che il carabiniere Agnesod mi si
presenterà sempre nel ricordo, unito a quella tenera nostra bambina innocente,
protetta e guidata dalla sua mano forte.
Miei cari concittadini, da ieri, dalla prima notizia del nefando delitto,
un’immagine mi perseguita e mi stringe il cuore: l’immagine della povera mamma
di questo carabiniere ucciso.
Dove – domanderà questa madre desolata – dove hanno ucciso il mio Giusto?
A Irsina, le risponderanno, non combattendo di fronte al nemico, ma per mano
fraterna.
Chi potrà cancellare nel cuore di questa povera donna l’immagine, l’impressione
che Irsina sia un covo di belve? Che gli irsinesi siano un popolo senza fede e
senza pietà?
Ahi questo e ciò che punge maggiormente il mio sentimento di cittadino
d’Irsina.
Non desolata mamma lontana, no cari militi, che oggi piangete il vostro
compagno. Il delitto di pochi facinorosi traviati non deve macchiare il nome di
questa città, dove la bontà, la civiltà l’ordine ha un’antica tradizione.
Vedete questo tempio magnifico, vedete il nostro campanile millenario, le
nostre antiche mura, i nostri monumenti, le nostre istituzioni, essi vi dicono
che i nostri padri seguirono le vie del bene, dell’ordine, della gentilezza e
della bontà ispirata dalla Fede; e che noi seguiremo queste tracce, che
c’indicano la via della civiltà.
A questa mamma infelice, cui bisogna pur far sapere l’infausta perdita del suo
diletto figliolo, voi direte che tutta Irsina ha pianto sul suo caduto, che
tutte le madri hanno occupato il posto della sua mamma in doloroso compianto,
che tutte le fanciulle d’Irsina, hanno sfilato con gli occhi pieni di lagrime
avanti alla sua bara baciandogli le mani.
Dite a questa povera mamma che il corteo funebre ha percorso le vie della città
in mezzo ad un popolo che singhiozzava. Possa questa plebiscitaria
manifestazione di cordoglio valere a confortare il suo immenso dolore.
Miei cari concittadini, nell’ora oscura che attraversa la nostra patria, direi
tutta l’umanità, il sacrificio eroico del carabiniere Agnesod ha un valore di
redenzione e non deve rimanere inutile e vano.
Il suo sangue, che ha tinte di rosso le nostre strade cittadine, è lo stesso
sangue dei nostri fratelli caduti per terra, per mare, nei cieli in questa
funesta guerra che preparava nuovi destini delle nazioni.
Gli stranieri che oggi occupano il suolo della Patria ci osservano, osservano
se noi siamo degni d’ordinamenti liberi, e se immeritevoli di libertà, rimarremo
aggiogati ad una dura servitù straniera”.

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