mercoledì, 23 Aprile 2025

Il prof. Incampo: “Aspettando la fumata bianca”

È ancora buio quando le prime campane cominciano a suonare a morto. A Roma, l’alba si fa attendere, come se anche il sole stesse osservando un momento di raccoglimento. Nella quiete sospesa di piazza San Pietro, pochi passi riecheggiano sul selciato. Qualcuno si...

“Dieci anni fa, quel giorno, ho visto i miei genitori per l’ultima volta. Da allora ho cambiato numero di telefono, casa, continente, ho tirato su un muro inespugnabile, ho messo un oceano di mezzo. Sono stati i dieci anni migliori della mia vita.”

Non usa mezzi termini, non ha ripensamenti il tormentato io narrante de L’anniversario (Feltrinelli), il nuovo intenso romanzo di Andrea Bajani. Sono davvero pochi gli scrittori che, come lui, riescono con le parole a dare forma alle emozioni. Le sue trame sono sempre coinvolgenti, anche quando affrontano argomenti scomodi, ed è un merito innegabile aver saputo osare.

L’anniversario è una lettura che mette a disagio perché ha una domanda sottesa dall’inizio alla fine: “Si possono abbandonare il proprio padre e la propria madre? Si può sbattere la porta, scendere le scale e decidere che non li si vedrà più? Mettere in discussione l’origine, sfuggire alla sua stretta?”

Il protagonista ripercorre con lucidità gli anni vissuti tra le mura domestiche. In apparenza, la sua è una famiglia come tante. In realtà, la coppia genitoriale ha un bel po’ di problemi. Il padre con estrema noncuranza, quasi fosse un comportamento normale, ha sulla moglie una sorta di egemonia sottile e sadica che inevitabilmente si ripercuote sui due figli: “Per qualche pasto mio padre condannava la tavola al silenzio, noi figli speravamo che si finisse al più presto di mangiare, e mia madre raddoppiava una sua maniera specifica di essere servile dopo la tempesta, in cui era il pentimento a dettare ogni gesto che compiva intorno a lui. Cioè, portare il piatto del marito nel lavello senza ricevere alcun grazie, tenere il conto, controllando di continuo l’orologio, dei minuti esatti in cui lasciare la bustina del suo tè in immersione e poi tirarla via e mettergli la tazza sotto il naso, lavare i piatti appena finito di mangiare – e poi sedersi sul divano ad aspettare con un libro in mano, aperto alla stessa pagina per ore. Aspettare cosa? Che mio padre mettesse tre parole in fila in una frase, dando così il segnale inequivocabile che la vita poteva ricominciare come prima”.

Ci sono episodi di violenza, di prevaricazione, in un contesto di totale anaffettività. Il padre tiene in pugno tutti – in primis sua moglie – isolandoli tanto che madre e i figli sono costretti a ingegnarsi con parenti e amici inventando una sorte di codice Morse composto dagli squilli di un vecchio apparecchio telefonico – il romanzo è ambientato a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Quel che sconcerta è l’atteggiamento della madre, una donna passiva che, paradossalmente, continua a prendere le difese del marito a discapito di sé stessa e dei figli.

Emmanuel Carrère ha colto nel segno lo spirito de L’anniversario: “Ci si può liberare dai propri genitori? Dal male che ci hanno fatto? Senza ritorno e senza appello? E’ una domanda scandalosa. Andrea Bajani la affronta da scrittore, in un libro scandalosamente calmo”.

L’INTERVISTA

Parlando de L’anniversario hai affermato: “Se non scrivessi ogni frase, pur nella finzione, scegliendo di bandire ogni menzogna, ogni decorazione, non sarei un uomo libero”. Quanto c’è di “vero”, di autentico, di tuo in quello che racconti nel libro?

“Il problema della verità di quanto si racconta in questi ultimi anni è diventato incandescente, e in qualche maniera persino fuorviante. Dico fuorviante perché si finisce sempre per mescolare ciò che è “reale”, e quindi aderente a ciò che è successo fuori dal racconto scritto, e ciò che è “vero”, che dice qualcosa sulla condizione umana, che è appunto il territorio della letteratura. E questo determina una specie di mozione di sfiducia nei confronti della letteratura: solo ciò che è “reale”, che è una storia vera – si è finito per pensare – avrà un impatto emotivo forte. Proprio per questo L’anniversario è “un romanzo”, perché è fondamentale ridare al romanzo il potere che gli è proprio, di toccare il nervo della condizione umana senza rivendicare la scorciatoia del reale. Per questo non è un’autobiografia, non è un memoir, ma è un romanzo, e il romanzo da sempre mescola ciò che è reale con ciò che non lo è, ma mira sempre a dire il vero.”

Scrivi: “Si possono abbandonare i propri genitori? O meglio, ci si può sottrarre a loro, semplicemente togliendo il proprio corpo di mezzo con un gesto netto e definitivo? E condannarli a vivere il resto dei propri giorni, per così dire, con un arto fantasma? Non è una risposta che si possa dare in maniera affermativa. Si può solo fare, e io lo feci, con quella ponderatezza definitiva che solo l’istinto consente, perchè la ragione, impaurita, altrimenti arretrerebbe”. Immagino sia comunque una scelta devastante e probabilmente non così rara, visto che secondo te è quello che centinaia di migliaia di persone fanno quando, ad esempio per lavoro, decidono di frapporre “chilometri tra sé e chi ci precede sulla linea della vita”.

“C’è un elemento culturale molto forte che va messo in luce, su questo fronte. Nel nostro paese è il vero tabù, e questo è un fatto. Della famiglia si può parlare male, naturalmente, perché anche se può suonarci paradossale questo cementa le identità familiari. Però non la si può mettere in discussione. Di qualsiasi legame si può mettere in discussione l’esistenza, se violento, abusante, o se semplicemente non va, ma non il legame con la famiglia. Gli altri, che siano amicali, lavorativi o persino matrimoniali, hanno persino delle leggi a tutelarli. Il legame con i propri genitori invece nella nostra cultura sta ancora tutto nel territorio arcaico del sangue. Anche se violento, non può essere interrotto, perché sta appunto nel sacro, nella colpa. Ecco, la letteratura, di suo, rompe i tabù con delle domande, e questo è forse il più grosso che abbiamo.”

La madre del protagonista è una donna che ha “familiarità con l’abiezione”, con la sorella l’io narrante ha un rapporto di protezione e rancore, la psicoterapeuta è una figura a dir poco bizzarra… A parte la moglie del protagonista, con una sua dignità e una personalità capace di tener testa a una famiglia disfunzionale, le donne – la madre in primis – non ne escono bene: passive, sottomesse, rassegnate. 

“Mi interessava mettere in discussione la famiglia patriarcale, e farlo con la voce di un figlio maschio. Che con il suo gesto di distacco, fa un’affermazione in qualche maniera perentoria: rifiutare l’eredità patriarcale. Ha come predecessore, se così si può dire, un padre che considera l’uso della violenza psicologica e fisica maschile uno strumento legittimo di mantenimento del potere in casa. E come secondo strumento, l’assegnazione dei ruoli nella famiglia. Alla moglie, nella sua assegnazione dei ruoli patriarcale, assegna non solo la subordinazione ma l’invisibilità. Il movimento del figlio, da cui parte il suo racconto, è rigettare anche questo. Dopo aver considerato per così dire normale la versione del padre, e aver accettato a lungo l’invisibilità della donna e madre, il suo racconto parte mettendola al centro della scena.”

Quanto è stato emotivamente forte scrivere di un padre violento, che tiene in pugno la famiglia – “Mio padre, in sintesi, aveva bisogno di spaventare per sentirsi amato, anche se sapeva per istinto che nessuno spavento sarebbe stato sufficiente a farsi amare quanto lui voleva, e che anzi avrebbe provocato solo paura, insincerità e in definitiva disamore”?

“I tabù culturali sono così violenti e duri a morire perché sono radicati nelle viscere di ciascuno, incluso chi scrive. Quando ci si mette a scrivere e a confrontarsi con quel tabù, ci si trova a dover sollevare un masso enorme. E questo è forte, certo, comporta fatica, messa in discussione di quanto essendo così radicato è parte anche della nostra identità. Ma poi quando sollevi il masso ti rendi conto di quanta vita c’era sotto, piccoli animaletti che cominciano a correre dappertutto.”

La madre, è un dato di fatto, non vuole farsi aiutare. Però è anche vero che, salvo un tentativo della figlia, nessuno prova a tirarla fuori da quella relazione violenta. Perché?

“Qui c’è una questione che mi pare chiave, e cioè la famiglia come sistema. In fondo è la faccenda centrale di tutto il romanzo. Un figlio, che per oltre quarant’anni ha vissuto dentro un sistema e per tutto quel tempo non solo non è riuscito a metterlo in discussione, ma nemmeno a raccontarlo. Riesce a farlo solo dopo esserne uscito, dieci anni dopo, celebrando per l’appunto quel cosiddetto anniversario. Il punto è il sistema famiglia, quella impossibilità di uscire da dinamiche calcificate, in cui ciascuno e ciascuna, è complice e alimenta quello stesso sistema. Il figlio come la madre. Nessuno ha non dico la forza, ma nemmeno l’immaginazione per sottrarsi.”

 Il telefono, nel tuo romanzo, è uno strumento carico di significati. Per la madre significa emancipazione, anche se in forme infinitesimali; per il padre è un nemico; per la psicoterapeuta la cura e per l’io narrante, alla fine, una sorta di spartiacque in una relazione familiare anaffettiva. È così?

L’anniversario racconta di una famiglia che oggi diremmo disfunzionale e che probabilmente è disfunzionale come milioni di altre che consideriamo “normali”. La famiglia del romanzo è a tutti gli effetti un sistema totalitario, con a capo il maschio-padre. Come tutti i sistemi totalitari si fonda sulla chiusura e sull’impermeabilità al mondo esterno. Conosciamo storicamente la questione: le informazioni del mondo libero non devono filtrare. Ecco, il telefono, con il suo apparentemente innocuo parlarsi tra persone, mina quella chiusura ermetica. Il che è un classico di ogni messa in discussione dei sistemi totalitari. Non per altro i telefoni sono il primo oggetto a essere messo sotto controllo.”

“Ogni tanto sul suo viso vedo il viso di mia madre, è quello il posto in cui la incontro da due anni a questa parte. Di solito è un istante poi sparisce. E non fa bene, e non fa male.” Queste parole le pronuncia l’io narrante riferendosi al figlio di due anni. Possibile che una simile somiglianza non susciti emozioni?

“Credo che sia soprattutto l’attestazione di un diritto conquistato, quel finale, più che una mancanza di emozione. Un diritto a essere per sé, a sottrarsi a ciò che fa male. Credo sia così, ammesso e non concesso che noi che scriviamo storie capiamo veramente i nostri personaggi, compresi quelli che dicono “io”.”

L’AUTORE

Andrea Bajani è nato a Roma nel 1975. È autore, fra gli altri, dei romanzi Cordiali saluti (Einaudi 2005), Se consideri le colpe (Einaudi 2007, Feltrinelli UE 2021; premi Super Mondello, Brancati, Recanati e Lo Straniero), Ogni promessa (Einaudi 2010, Feltrinelli UE 2021; premio Bagutta), Mi riconosci (2013), La gentile clientela (2013) e Il libro delle case (2021, finalista al premio Strega e al premio Campiello). È inoltre autore dei volumi di poesie Promemoria (Einaudi 2017), Dimora naturale (Einaudi 2020) e L’amore viene prima (Feltrinelli, 2022).

I suoi libri sono tradotti in 17 Paesi. È writer in residence presso la Rice University di Houston, in Texas.

Rossella Montemurro

Foto di Andrea Frediani

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