giovedì, 25 Aprile 2024

 

“Mia mamma Antonietta resta in un angolo della stazione che diventa sempre più lontano, con le braccia incrociate sopra al mio cappotto. Come se mi tenesse stretto sotto ai bombardamenti”.
Amerigo ha appena otto anni e la madre lo sta lasciando andare sul “treno della felicità”, insieme a migliaia di altri bambini, unn treno che lo porterà a trascorrere alcuni mesi con una famiglia del Nord. In questo modo Amerigo avrà tutto quello che a Napoli, nel 1946, sua madre che lo sta crescendo sola – e che “di carezze non ne ha mai avute e perciò non e tiene da dare”, gli sta facendo anche da padre, il papà è emigrato in America in cerca di fortuna – non potrebbe offrirgli. Il piccolo avrà l’alternativa a giornate passate a raccogliere stracci, avrà – lo hanno assicurato ad Antonietta le donne del Partito Comunista – un futuro dignitoso: “(…) Non ve ne andate. Non gliela togliete questa possibilità ai figli vostri. Pensate che l’inverno sta arrivando. Il freddo, il tracoma, le case umide… – Si avvicinano a ogni bambino e regalano una tavoletta di carta stagnola. – Siamo mamme pure noi. I figli vostri passeranno l’inverno al caldo, mangeranno, saranno curati. Già le famiglie di Bologna, di Modena e di Rimini li aspettano per accoglierli nelle case loro. Vi torneranno più belli, più sani, ingrassati. Mangeranno tutti i giorni. Colazione, pranzo e cena”.
Il treno dei bambini (Einaudi) di Viola Ardone è un romanzo intenso e struggente che ha preso spunto da una vicenda, probabilmente poco conosciuta, dell’immediato dopoguerra. È una separazione, terribile ma necessaria che, paradossalmente, si rivelerà più dolce del momento in cui Antonietta e Amerigo si riabbracceranno.
Dopo mesi trascorsi a Modena con Derna, che quando è fuori per lavoro lo lascia a casa di sua cugina Rosa – moglie di Alcide e mamma di Rivo, Luzio e Nario – il rientro ha un retrogusto amaro, è una specie di involuzione che sulle prime porta Amerigo quasi a denigrare quel periodo spensierato: “Che ci azzecco più io con loro? I pianoforti, il violino, la stalla, la befana partigiana, la pasta fresca con la farina e le uova, il direttore Lenin, i segnali dalla finestra, il maestro Ferrari, la penna rossa e la penna blu, il cappotto, la spilla rossa sopra al cappotto, le lettere nello spazio piccolo e quelle nello spazio grande tra le righe del quaderno”.
Per Amerigo, Modena ha voluto dire una quotidianità su misura di bambino e non quella di espedienti che viveva a Napoli, mangiare tre volte al giorno e non una sola – quando andava bene -, gesti di affetto a fronte di mazzate, ha significato andare a scuola, suonare il volino, indossare scarpe del numero gusto, né troppo strette né troppo larghe… Ecco perché il rientro a Napoli stride con ciò che ha vissuto tanto da sperare che quello sia soltanto un sogno e che la realtà, invece, sia l’Emilia Romagna.
Il treno dei bambini affronta con delicatezza il legame madre-figlio, una madre biologica inflessibile, troppo impegnata a sopravvivere e a proteggere a modo suo l’unico figlio (“Tu non avevi paura di niente. Camminavi sempre a testa alta. La paura non esiste, mi dicevi, è solo una fantasia. Me lo sono ripetuto anch’io, non me ne sono mai convinto”) e una madre adottiva in grado di avvolgere un bambino con tutte le attenzioni possibili.
Viola Ardone ha raccontato una storia difficilissima, che trasuda emozioni, con le parole più adatte, usando un linguaggio vivace e colorito nelle prime due delle quattro parti in cui è diviso il romanzo, fino a diventare più asciutto e nostalgico nella terza e a lasciarsi andare a un’incredibile intimismo nell’ultima, quando la voce di Amerigo non ci lascerà scampo.
Presentato come il caso editoriale della scorsa fiera di Francoforte, tradotto in 24 Paesi (destinati ad aumentare), Il treno dei bambini è uno di quelle letture che rimangono addosso a lungo.
L’autrice, nata a Napoli nel 1974, insegna latino e italiano al liceo. Ha pubblicato per Salani Una rivoluzione sentimentale.
Rossella Montemurro
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